Le soluzioni a livello nazionale sono spesso limitate e pertanto serve un modello corretto di cooperazione
Gordon Brown * – Il Sole 24 Ore domenica – 28 Gennaio 2018
I movimenti protezionistici e la tendenza a “riportare tutto sotto controllo” fioriranno fin quando la globalizzazione resterà senza una guida e procederà come un treno in corsa sbandando e andando fuori controllo. È triste ma ci sono buone ragioni per le quali “globalizzazione” sia diventata una brutta parola per milioni di persone. I pilastri del Washington consensus stanno collassando. Molti ora concordano sul fatto che il libero scambio senza commercio equo crea milioni di perdenti accanto ai vincitori. I flussi di capitale non regolamentati possono destabilizzare le economie. E le crescenti disuguaglianze sociali possono sortire effetti negativi sulla crescita.
Questa consapevolezza colpisce al cuore il libero mercato e a distanza di dieci anni dalla crisi globale non si può fare a meno di riconoscere che persone o aziende che agiscono esclusivamente nel proprio interesse non sempre siano al servizio del pubblico. Ma non è ancora emerso un nuovo paradigma economico per l’era globale. Nel vuoto che ne consegue, il protezionismo e il populismo anti-commercio, il nazionalismo illiberale – e spesso xenofobo – hanno guadagnato terreno, alimentati dalle preoccupazioni per i salari stagnanti, la disoccupazione tecnologica e la crescente insicurezza. E statene certi: coloro che sono stati abbandonati e lasciati indietro dalla globalizzazione stanno cercando qualcosa e qualcuno che ascolti il loro malcontento e li protegga.
Ma nessun nazionalismo – sia esso quello propugnato dal presidente Trump o da altri – né un sistema eccessivamente stereotipato o elaborato di governance soddisferanno le esigenze delle persone in termini di prosperità, sicurezza, giustizia. Se dobbiamo domare la globalizzazione e rispettare le identità nazionali, dobbiamo trovare il giusto equilibrio tra autonomia nazionale auspicata da molti cittadini e accordi internazionali agognati da molti Paesi.
Il nazionalismo del tipo America First di Trump propone di tagliare le importazioni, limitare l’immigrazione e abbandonare l’accordo di Parigi sul clima e gli accordi di libero scambio. Per un Paese che beneficia del suo ruolo di leader nelle catene di distribuzione globali, questa è una strategia autodistruttiva.
Trump non sa – o forse non vuole sapere – che tagliando le importazioni rischia di tagliare le esportazioni, perché miliardi di dollari di esportazioni Usa contano sui componenti importati. E si dimentica che la redditività di molte aziende Usa dipende più dai lavoratori asiatici che utilizzano tecnologia americana che dai più costosi lavoratori americani che impiegano le stesse tecniche di produzione.
L’alternativa progressista che è il “nazionalismo responsabile” è un programma per compensare i ceti medi con la riqualificazione e i sussidi salariali. E anche i sedicenti sistemi di welfare europei consentono di far uscire dalla povertà solo un terzo dei poveri.
Negli Usa le disuguaglianze sono ora così evidenti che il credito d’imposta sul reddito federale fornisce solo il 2,5% di ciò che sarebbe necessario per riportare la distribuzione del reddito tra la fascia più bassa, 80%, e quella più alta, 20%, ai livelli degli anni 80. Affrontare elevati livelli di disuguaglianza richiederà la cooperazione internazionale per rimpatriare i miliardi dei paradisi fiscali.
La battaglia contro il degrado ambientale pone lo stesso problema: il progresso sostenibile contro l’inquinamento non si può realizzare se gli stati-nazione non riescono a prendere seriamente le proprie responsabilità per ridurre le emissioni e passare all’energia rinnovabile.
Le soluzioni a livello nazionale hanno un limite e pertanto urge un modello corretto di coopePer bilanciare autonomia e cooperazione iniziare da azioni nelle aree in cui i vantaggi sono più elevatirazione per conseguire la prosperità nazionale in quest’era iper-connessa. Per puntare sul giusto equilibrio tra autonomia e cooperazione bisogna chiarire la distinzione tra il concetto di sovranità di Stato del XIX e del XX secolo. Nel primo caso il potere è centralizzato nelle mani di un singolo Stato che è visto come indivisibile; nel secondo il potere è focalizzato sull’autogoverno popolare, con i cittadini che scelgono se il potere debba risiedere a livello locale, nazionale o internazionale.
Nel 2018 e negli anni a venire, dovremo stabilire piani realistici per rispondere alle reazioni negative nei confronti della globalizzazione gestendo meglio proprio la globalizzazione. Nessuno dispone di una roadmap per bilanciare autonomia e cooperazione. Ma il modo migliore per iniziare è focalizzarsi su azioni internazionali di cooperazione in aree in cui i vantaggi sono più elevati, o i costi di non-cooperazione sono i più pesanti. Ma dovremo anche affrontare le questioni distributive, nel commercio, nel cambiamento climatico o nello sviluppo e nell’impiego di tecnologie.
È tempo di creare a livello mondiale un sistema di preallerta per i mercati finanziari che si basi su standard applicabili a livello globale in materia di adeguatezza patrimoniale, liquidità, trasparenza e responsabilità, e includa punti di azione concordati di fronte al moltiplicarsi di rischi.
Dobbiamo ampliare la portata degli interventi di ristrutturazione finanziaria post-crisi per coprire i centri finanziari globali. Altrimenti, quando la prossima crisi colpirà, non sapremo affrontarla.In secondo luogo, dobbiamo riformare l’offerta globale e le catene di valore. Ovviamente dovremmo avere regole eque in materia di proprietà intellettuale e barriere tariffarie e non. Ma occorre affrontare anche le ingiustizie che sono alla base delle catene di distribuzione globali e alimentano le odierne proteste anti-globalizzazione. In terzo luogo, dovremmo migliorare la cooperazione macroeconomica. Nel decennio passato, la crescita della produzione globale e del commercio è stata inferiore a quanto avrebbe dovuto e potuto essere.
Nel 2009 ho proposto un target di crescita nominale per l’economia mondiale per garantire una ripresa più rapida dalla recessione post-crisi. Allora, nel 2010, il G20 raggiunse un accordo in base al quale i maggiori Paesi esportatori come la Cina avrebbero limitato i surplus di parte corrente al 4%, e i maggiori Paesi importatori come gli Usa avrebbero messo un tetto ai deficit.
Per ridurre gli squilibri macroeconomici e incentivare la crescita serve un G20 più solido. Il “Premier forum for economic cooperation” dovrebbe avere una capacità esecutiva, un maggior numero di Paesi aderenti e una maggiore rappresentanza.
Quando ero premier del Regno Unito, il governo lottò per trovare un accordo commerciale mondiale, mentre India e America continuavano a rifiutarsi di tagliare le importazioni agricole per tutelare i mezzi di sussistenza dei contadini indiani. Oggi, senza l’aiuto dell’America, i Paesi del Pacifico discutono dei propri accordi commerciali multilaterali, e questo suggerisce di prepararci a un periodo, post-Trump, in cui un nuovo accordo mondiale sarà nuovamente possibile.
Nel frattempo, l’economista e premio Nobel Michael Spence ha eloquentemente sostenuto che l’Fmi dovrebbe maggiormente focalizzarsi sulla sorveglianza globale, con l’obiettivo di identificare e rimuovere le debolezze strutturali in un’economia mondiale in rapida evoluzione.
Sarebbe d’aiuto se i piani volti a finanziare gli Obiettivi di sviluppo sostenibile Onu per il 2030 includessero la ricapitalizzazione della Banca mondiale per conferirle maggior potere di contrarre debiti. Le risorse della Banca potrebbero essere aumentate effettuando una fusione del fondo per i Paesi a basso reddito, l’International Development Association, con il fondo per i Paesi a medio reddito, l’International Bank for Reconstruction and Development, e incoraggiando una maggiore cooperazione tra la stessa Banca mondiale e altre banche regionali per lo sviluppo.
Mentre i partecipanti discutevano sul dare inizio al forum Billions to Trillions ad Addis Ababa, Etiopia, quasi tre anni fa, i target di sviluppo per ambiente, salute, parità di genere e occupazione invocavano piani innovativi di esecuzione per usare al meglio il budget mondiale di aiuti pari a 160 miliardi di dollari. L’International Commission on Financing Global Education Opportunity, che ho presieduto in passato, ha proposto un sistema di finanziamento pubblico-privato che possa fare da completamento alle esistenti istituzioni e raccogliere altri 10 miliardi di dollari l’anno per l’istruzione in tutto il mondo.
Dobbiamo sviluppare meccanismi che non si limitino a recuperare elemosina. Solo con l’innovazione possiamo occuparci dei 20 milioni di rifugiati del mondo e dei 60 milioni di sfollati, che hanno patito indicibili atrocità, e che il sottosegretario generale Onu António Guterres si sta impegnando ad aiutare.
È giusto che la comunità internazionale fissi obiettivi di sviluppo ambiziosi. Ma se non riusciremo a realizzare tali obiettivi pioveranno accuse di tradimento. I nazionalisti continueranno a sostenere che non ci si può fidare degli attuali leader politici e gli estremisti di ogni bandiera insisteranno sul fatto che non sia possibile la coesistenza tra Paesi, culture e religioni.
Con l’America in ritirata e la Brexit che minaccia di isolare la Gran Bretagna, il 2018 quasi certamente registrerà delle battute d’arresto. Ma è pronta una nuova agenda in grado di assicurare prosperità a tutti i Paesi, non solo con azioni nazionali, ma anche attraverso una maggiore cooperazione internazionale, a partire dalle aree più promettenti, per poi diffondersi in molteplici ambiti.
• Ex premier e cancelliere dello scacchiere del Regno Unito, è inviato speciale Onu per l’educazione globale e presidente della Commissione internazionale per il finanziamento di opportunità educative globali
Un nuovo equilibrio nell’era globale