Lo sviluppo scientifico-tecnologico e la proliferazione di scelte professionali ed expertises, la corsa alla specializzazione e la ricerca necessitata di un profilo personale originale per essere riconosciuti (e gratificati) in un mercato del lavoro flessibile, la rivoluzione digitale che ha spettacolarizzato l’esplosione della soggettività: tutto ciò ha creato un ambiente umano-sociale euforizzante ed allo stesso tempo artificioso, entusiasmante ma anche disarmante, sovrabbondante di opzioni ed opportunità nell’ambito delle molteplici varianti dei nostri bisogni e desideri sociali, ma anche sfidante ed usurante.
Siamo immersi in un palinsesto che sollecita i nostri sentimenti, da quelli più profondi che hanno a che fare con l’autorealizzazione, la creatività e la relazionalità, a quelli che appartengono alla sfera del loisir (alimentazione, welness & turismo, informazione & cultura-spettacolo) e ad una più attenta e consapevole cura di sé (dalla qualità e continuità dei programmi educativi e di aggiornamento all’invecchiamento attivo per espandere gli anni di vita vissuti con intensità).
Il godimento di tali benefici ci sottopone all’esercizio quotidiano di nuovi alfabeti e linguaggi, ci impone la conoscenza ed il rispetto di nuovi protocolli ed a fare i conti, sia nella dimensione privata che in quella professionale e pubblica, con un quadro di crescente complessità, attraverso un “monitor” che ci indica quotidianamente l’intricato reticolo di vincoli e scelte operative.
Siamo anche noi sottoposti ad uno “stress test” che verifica costantemente il nostro background professionale, le coerenze comportamentali, il livello di conoscenza-consapevolezza posseduto e la capacità di affrontare – in termini di benessere psicofisico e consapevolezza – problemi e dilemmi la cui soluzione sfugge ai canoni conosciuti e dominati, e perciò richiede un permanente investimento intellettuale ed emotivo.
Lasciando alla competenza dei sociologi l’indagine sui fattori determinanti e sulle caratteristiche del mutamento antropologico-culturale in corso, mi interessa qui evidenziare come l’evoluzione e l’arricchimento (che ne è conseguito) della nostra identità costituiscono il vero motore di quell’economia della conoscenza, la cui affluenza – nell’ultimo ventennio – è stata osservata e descritta in lungo ed in largo, ma verosimilmente non ancora ben compresa ed indagata sotto il profilo del cambiamento strutturale che essa ha prodotto per la sua incidenza sulle scelte di vita delle persone, delle organizzazioni, delle rappresentanze.
Si pensi in particolare agli effetti sul mercato del lavoro, che hanno suggerito al futurologo e visionario Jeremy Rifkin l’inverosimile (ed ovviamente non avveratasi) “fine del lavoro”; oppure alle varie narrazioni sull’avvento dei knowledge workers o sulla moderna fiaba del “futuro artigiano”: tentativi di trovare un’interpretazione compiuta alla fenomenologia del “cognitariato” che in gran parte dei Paesi occidentali ad alto tasso di sviluppo, sul piano occupazionale ha progressivamente spiazzato e sostituito la realtà sociale del proletariato sorto ed espantosi con lo sviluppo industriale.
Il fatto è che da parte di molti analisti si è tentato di imbrigliare l’energia della soggettività emergente con strumenti interpretativi, parametri valutativi e contenitori organizzativi del tutto inadatti, nella speranza che i valori ed modelli storicizzati potessero essere sovrapposti ad una realtà sociale mutante ed inedita; quasi tutti i tentativi in tal senso si sono rivelati effimeri e sono stati letteralmente bruciati; la persistenza della crisi sta dimostrando che, in buona misura, essa è anche il risultato dell’incapacità di comprendere i paradigmi di una nuova strategia di sviluppo, le chiavi di accesso ad un futuro che segna una discontinuità storica shoccante.
Il “vecchio” cantore dei Distretti industriali Giacomo Beccattini è lo studioso che, invece, non si è fatto trovare impreparato di fronte al cambio epocale; cito a memoria una affermazione che ne riassume il (condivisibile) pensiero: “prima della crisi abbiamo imparato a produrre; durante la crisi abbiamo imparato a convivere; dopo la crisi dobbiamo imparare a con-produrre”.
Un’altra citazione, che sintetizza un approccio analitico brillante nello studio della rottura dei modelli organizzativi consolidati, si riferisce al docente di Management ad Harvard, Frank J. Barrett, autore del volume “Yes to the Mess: Surprising Leadership Lessons from Jazz”, pubblicato in Italia con il titolo “Disordine armonico” ed è la seguente: “il tessuto connettivo che unisce opportunità e attuazione è ancora in via di sviluppo”.
Naturalmente, per illustrare ancora meglio il pensiero che qui voglio esprimere, non può mancare un riferimento al fondamentale libro di Richard Sennett, Insieme. Rituali, piaceri, politiche della collaborazione, una sorta di manifesto-invito ad affrontare la grande trasformazione in atto in tutte le società occidentali riprendendo a coltivare una qualità innata dell’uomo, (di cui è dotato fin da neonato), ovvero la capacità di cooperare; oggi – insiste l’autore – gli è richiesto di esercitarla ed approfondirne la valenza, al fine di farla diventare un’abilità sociale in grado di consentirgli di realizzare opere e conseguire risultati che da solo non potrà più conseguire nel contesto economico mutato in modo così profondo da rendere presuntuosa, velleitaria ed inefficace l’azione individuale.
Purtroppo la perspicacia, le intuizioni e le indicazioni generose che ho espunto tra i molti testi che negli ultimi anni si sono cimentati con il tema del cambiamento necessario, sollecitato dalla crisi, impattano con una realtà vischiosa costituita dalla diffusione di una soggettività che si è spinta molto oltre i confini tradizionali dell’esercizio dell’affermazione individuale, esondando in una sorta di narcisismo che alimenta (in una prima fase positivamente) processi conflittuali nelle strutture organizzative tradizionali, introducendovi rotture e sperimentandovi innovazioni procedurali, ma fatica a coagularsi e consolidarsi in un movimento che valorizza la ricchezza delle persone assumendo la cultura della collaborazione come orizzonte culturale ed etico-sociale condiviso.
La strategia del win win si è certamente affermata, ma prevalentemente come artificio retorico per catturare – da parte dei soggetti forti operanti nel mercato – risorse professionali dinamiche ed energie intellettuali fresche espresse dalle giovani generazioni, all’interno di contesti sociali, imprenditoriali e politici nei quali hanno continuato a prevalere strutture e pratiche di potere gerarchico-organizzativo tradizionali, esercitato attraverso variazioni ed aggiornamenti (e camuffamenti) del leaderismo carismatico, dell’individualismo proprietario, dell’autoreferenzialità.
Il risultato sotto gli occhi di tutti coloro che si sforzano di comprendere le ragioni non congiunturali della crisi perdurante, attraverso una lettura svincolata da collocazione/ruolo/successo in ambito socio-politico o professionale-economico, è il seguente: il modello di sviluppo alimentato dalla competitività non accompagnata da una regolamentazione finalizzata a verificarne i benefici pubblici e ad incentivarla costantemente (per liberare tutte le risorse imprenditoriali portatrici di innovazione e incremento della produttività), si è inceppato.
I meccanismi della crescita sono ostruiti dalle infinite manifestazioni di autosufficienza, ovvero dai diffusi fenomeni di degenerazione dello spirito imprenditivo-professionale in corporativismo e monadismo a-sociale (altro che liquidità!) che ostacola e rallenta i processi di aggregazione-trasformazione indispensabili ad affrontare le nuove sfide della competizione globale.
Il mainstream della conservazione si nutre della frammentazione e dell’autodifesa da parte del caleidoscopio di mondi, soggetti, gruppi per i quali la rigenerazione della propria identità rappresenta una minaccia piuttosto che una sfida affascinante; gli apparati sedimentatisi all’interno delle istituzioni, le nomenclature politiche ed associative, il giornalismo sobillatore e qualunquista, il mondo bancario e delle imprese refrattario alla competizione trasparente, le corporazioni professionali rattrappite negli albi a difesa di anacronistici privilegi, esercitano una soggettività passiva, ovvero resistente alla domanda di cooperazione-integrazione-innovazione che si manifesta (anche) attraverso la voice di nuove generazioni (giustamente) impazienti di entrare in gioco.
Il paradosso del tempo presente in Italia ed in Europa è che la ripresa economica è possibile solo a condizione di innescare processi di maggiore integrazione attraverso l’abbattimento di barriere (obiettivo efficienza & competitività) contestuale alla moltiplicazione ed espansione delle reti con il finanziamento delle reti. E ciò è reso possibile se il solipsismo e narcisismo, la cui espressione massima è rappresentata dai risorgenti nazionalismi (macro nella versione tedesca, micro nei sussulti indipendentisti scozzesi e baschi), che a loro volta costituiscono la condensazione dei molteplici interessi annidati nei territori e nelle aggregazioni lobbistiche sociali ed economiche, piccole e grandi: si tratti di banche cooperative tedesche o di contadini francesi, di corporazioni professionali che erigono barriere alla libera circolazione o di utilities che operano al riparo di normative e regolamentazioni protezionistiche.
Questo coacervo di egoismi ed arretratezze va aggredito con la forza di tutti i soggetti che hanno acquisito la consapevolezza che gli interessi possono essere meglio salvaguardati all’interno di un sistema che privilegia i processi di innovazione sociale realizzati attraverso la condivisione della conoscenza.
Gli effetti positivi di tale scelta non vanno compresi solo per l’effetto spillover (su cui ha insistito Clay Shirky con le sue tesi ottimistiche sul surplus cognitivo), ma soprattutto perchè rappresentano l’orizzonte etico e culturale di una nuova civiltà dello sviluppo sostenibile che non sacrifica i talenti personali e l’affermazione individuale ma crea una cornice ed un contesto favorevole alla loro più piena maturazione e produttività, in tutti gli ambiti: a cominciare dalla ricerca (che senso hanno ventisette “CNR” in Europa e sistemi non integrati in rete, con impressionanti sovrapposizioni e diseconomie ….) proseguendo per l’integrazione interprofessionale (ora sostenuta dal FSE); dalla gestione d’impresa alla progressione geometrica dell’associazionismo finalizzato all’innovazione finanziaria, organizzativa, tecnologica; dalla cittadinanza attiva resa maggiormente praticabile dal digitale (e-participation) alla governace istituzionale per la quale la dialettica politica deve comunque finalizzata al superiore interesse delle comunità a tutti i livelli…..
Si tratta di una svolta resa possibile dalle scelte individuali con cui tutti siamo chiamati a ri-orientare l’orgoglio che alimenta il solipsismo ed il narcisismo, nell’alveo di un impegno impastato di umiltà, ascolto, riconoscimento della funzione decisiva del rapporto collaborativo con gli degli altri.
Con la dote di visionario che lo contraddistingue (e che ho già sottolineato) Jeremy Rifkin tratteggia nella sua ultima opera (La società a costo marginale zero, Mondadori, Milano) il mutamento di scenario così rilevante da ritenere che la terza rivoluzione industriale (risultante dalla connessione digitale di ICTs, energie rinnovabili e logistica), “si sta traducendo in una forte spinta alla produttività sino al punto di azzerare pressoché del tutto i costi marginali di produzione per numerosi beni e servizi, rendendo gli uni e gli altri pressoché gratuiti e talmente abbondanti da non essere, alla fin fine, più soggetti alle forze e ai vincoli del mercato”.
Saremmo cioè in presenza di una trasformazione epocale che prelude alla formazione di un sistema economico nel quale si andrà affermando il nuovo paradigma del “Commons collaborativo”, “caratterizzato dalla gestazione e progressiva affermazione di un’economia più empatica e sostenibile, tale da coinvolgere e collegare, attraverso una filiera complessa di network globali, tutto con tutti, milioni di individui e soggetti diversi”.
Rifkin ha ottime ragioni ed argomenti persuasivi nel descrivere tale suggestiva sceneggiatura, ma credo che il passaggio decisivo è legato all’evoluzione dell’identità profonda, ovvero alla capacità degli uomini di decidere che nel palinsesto del futuro la qualità ed il benessere non siano l’output di un ambiente naturale pervaso da tecnoscienza, informatica ed intelligenza artificiale, bensì la conseguenza di modelli relazionali impregnati di fiducia reciproca, apprezzamento etico ed estetico dello scambio collaborativo, che attestino il superamento dell’attuale stagione adolescenziale in cui stanno prevalendo l’illusione narcisistica e la diffusa pratica del solipsismo.
Solipsisti e narcisisti di tutta Europa…impariamo a collaborare!
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