Perché l’essenza di Allah è nel perdono

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La misericordia per i peccatori, spiegata nel Corano, avvicina il Dio dell’Islam a quello del cristianesimo
PIETRO CITATI – Repubblica CULTURA – ‎10‎/‎07‎/‎2017

In nessuna religione, mai, l’unicità di Dio ha avuto un ruolo così intenso, violento ed esasperato come nell’Islam. “Non vi è divinità all’infuori di Dio”: vale a dire; “non vi è nulla che esiste all’infuori di Dio”. Come dice al-Ghazali (1058-1110), all’inizio del “Rinnovamento delle scienze religiose” (“Scritti scelti”, a cura di Laura Veccia Vaglieri e Roberto Rubinacci, Utet), “nella sua essenza egli è Uno senza socio, Singolo senza simile, Signore senza oppositore, Solo senza rivali, Eterno senza un prima, Perpetuo senza un principio, Perenne senza un ultimo, Sempiterno senza fine, Sussistente senza cessazione, Continuo senza interruzione”.
Allah è “il Primo e l’Ultimo, il Manifesto e l’Occulto”, dice il Corano. Non è un corpo con una forma, né una sostanza con limite e misura. Non è simile a cosa alcuna: misure non lo limitano, né lo contengono spazi. Egli è: non lo circoscrivono lati: non lo racchiudono terre né cieli; è seduto sul Trono senza contatto, assestamento, insediamento, dimora, spostamento. Egli non abita in cosa alcuna, né alcuna cosa abita in lui: è troppo elevato perché lo possano contenere luoghi, troppo puro perché lo possano limitare tempi; anzi Egli era prima di creare tempi e luoghi. Egli è l’Unico che non ha contrari, il Signore che non ha opposti, il Ricco che non ha bisogno, il Potente che fa ciò che vuole, il Sussistente, il Dominatore delle cose inerti, degli animali e delle piante, Colui che ha la grazia, la maestà, lo splendore e la perfezione. Se un uomo è rinchiuso nell’inferno, basta che egli conosca l’unicità di Dio perché lasci l’inferno. Come disse Maometto: “Chiunque dice: ‘non vi è Iddio se non Iddio, entrerà in Paradiso’”.
Nel suo bel libro L’esoterismo islamico (Adelphi), Alberto Ventura esplora Allah, senza cessare di paragonarlo alle figure divine nella Qabbalah, nel Tao, nella cultura indiana e in pseudo-Dionigi l’Areopagita. Non possiamo che implorare Allah: “O Dio, dice al-Ghazali, ti chiedo una grazia totale, una protezione continua, una misericordia completa, un’esistenza felice: ti chiedo beneficio perfetto e favore completo, generosità dolcissima, bontà affabile. O Dio sii con noi e non contro di noi. Attua largamente le nostre speranze, congiungi i nostri mattini e le nostre sere, versa in gran copia il tuo perdono sulle nostre colpe, accordaci il favore di correggere i nostri difetti, o Potente, o Perdonatore, o Generoso, o Sapiente, o Onnipotente. O Primo dei primi, o Ultimo degli ultimi, o più Misericordioso della misericordia”.
Al-Ghazali insegue tutti gli aspetti di Dio. Allah è oltre ogni nome e attributo, oltre ogni condizione e relazione, oltre tutte le apparenze e gli occultamenti, oltre ogni palesarsi e nascondersi, oltre ogni congiungimento e separazione, oltre tutte le contemplazioni e le intuizioni, oltre ogni cosa pensata e immaginata. Egli è oltre l’oltre, e poi oltre l’oltre, e poi ancora oltre l’oltre. Egli è il Principio infinito, incondizionato e immortale, che non può venire racchiuso entro i confini della ragione umana. È l’essere e il non-essere, il manifestato e il non manifestato, il suono e il silenzio. La sua immagine più adeguata è una notte tenebrosissima, nella quale non si può scorgere nulla di determinato e preciso.
Allah non somiglia a niente: nessuna cosa gli somiglia; la sua mano non somiglia alle altre mani, né la sua penna alle altre penne, né la sua parola alle altre parole, né la sua scrittura alle altre scritture. Eppure somiglia al mondo e all’uomo e il mondo e l’uomo gli assomigliano: “se non ci fossero le somiglianze, l’uomo non potrebbe elevarsi dalla conoscenza di sé stesso alla conoscenza del creatore”. Allah determina tutte le cose. Non avviene, nel mondo inferiore e in quello superiore, batter di ciglio, balenar di pensiero, subitaneo volgere di sguardo, se non per decreto, potere e volontà di Dio. Da lui proviene il male e il bene, l’utilità e il danno, l’Islam e la miscredenza, la conoscenza e la sconoscenza, il successo e la perdita, il vero e il falso, l’obbedienza e la disobbedienza, il politeismo e la fede. Anche il male – insiste al-Ghazali – e gli atti di ribellione umana non accadono per volontà di Satana ma di Dio. A volte egli proibisce ciò che vuole, e ordina ciò che non vuole. Non ha scopi, mentre gli uomini hanno scopi precisi. Desidera ciò che desidera senza alcun timore; e decide e fa quello che vuole, senza timore. Se ti fa perire, egli ha già fatto perire un numero infinito di tuoi simili e non ha smesso di tormentarli. “Sorveglia i tuoi respiri e i tuoi sguardi – dice al-Ghazali – e sta bene attento a non distrarti da Dio un solo istante”. A volte egli ci protegge da ogni tribolazione e malattia: ma egli non ha mai, in nessun momento, obblighi verso di noi o verso il mondo, di cui non ha assolutamente bisogno.
Come diceva Ali Bakr, la nostra assoluta incapacità di comprendere Dio è il nostro modo supremo di comprenderlo: sapere che noi siamo esclusi da lui è la nostra vera vicinanza. “Lode a colui che ha stabilito per le creature una via alla sua comprensione attraverso l’incapacità di comprenderlo”. Quando Dio entra nel cuore umano, la luce vi risplende, il petto si allarga, scopriamo il mistero del mondo, la grazia della misericordia cancella il velo dell’errore, e brilla in noi la realtà delle cose divine. Il cuore ripete il nome di Dio, fino a quando la lingua lo pronuncia incessantemente, senza essere comandata. Da principio è un rapido baleno che non permane, poi ritorna, si ritira, passa, ritorna. Tuttavia nemmeno in questo istante esiste in al-Ghazali quella identificazione con Dio, che altri mistici islamici (come al-Hal- laj) esperimentano e di cui parlano inebriati. Al-Ghazali preferisce parlare di annientamento dell’uomo: anzi di annientamento dell’annientamento, “perché il fedele si è annientato rispetto a sé stesso, e si è annientato rispetto al proprio annientamento: in quello stato egli è incosciente di sé stesso e incosciente della propria incoscienza”. Rispetto al Principio supremo, ogni elemento della realtà, se viene considerato in sé e per sé, è quasi insignificante, quasi illusorio, quasi un puro nulla. Ma al tempo stesso esso è significante perché è capace di riflettere l’Assoluto increato. Allora il molteplice manifesta l’essenza, e il passaggio dal molteplice all’uno e dall’uno al molteplice è istantaneo. Così il mare, dice Ibn Arabi, si moltiplica nella forma delle onde, pur rimanendo sé stesso. Dio è altro rispetto alle cose: ma non così altro da escludere ogni somiglianza; dunque è insieme altro e simile. Se qualcuno dicesse: “non conosco che Dio eccelso” direbbe la verità; ma se dicesse “non conosco Dio eccelso”, direbbe ugualmente il vero. Questa – sottolinea Alberto Ventura – è la profonda doppiezza, ambiguità e ricchezza della vita e della cultura islamica.
Quando l’intelletto umano è libero dagli inganni della fantasia e dell’immaginazione, esso può vedere le cose come sono. È quella che al-Ghazali chiama la condizione profetica: nella quale rifulgono le tavole dell’invisibile, le leggi dell’Altra vita, le conoscenze su Dio che vanno oltre la portata dello spirito intellettivo. Dio dunque si può vedere. Ci sono persone che vedono le cose tramite lui, e altre che vedono le cose e tramite le cose vedono lui. I primi hanno una visione diretta di Dio: i secondi lo deducono dalle sue opere; i primi appartengono alla categoria dei giusti, i secondi a quella dei sapienti. Talvolta Dio si manifesta così intensamente e in modo così esorbitante, che viene occultato. Come dice il Corano, Dio è nascosto dietro settanta (o settecento o settemila) veli di luce e di tenebra: se egli li rimuovesse, il suo sublime splendore brucerebbe chiunque sia giunto vicino a lui con lo sguardo. Dio si nasconde dietro sé stesso. La sua luce è il suo velo.
Secondo una tradizione raccontata dal Al-Ghazali, Dio ha detto: “Se il mio servo commette un peccato grande come la terra, io lo accolgo con un perdono grande come la terra”. Quando l’uomo pecca, l’angelo tiene sollevata la penna per sei ore: se l’uomo si pente e chiede perdono, l’angelo non registra il peccato a suo carico; se continua a peccare, registra il suo peccato soltanto come una cattiva azione. Dio non si stanca di perdonare finché il suo servo non si stanca di chieder perdono. Se il fedele si propone una buona azione, l’angelo la segna prima che egli l’abbia compiuta e, se la compie, gliene vengono registrate dieci. Quindi Dio la moltiplica fino a settecento volte.
Allah perdona sopratutto i grandi peccatori. Come dice Maometto: “Io ho la facoltà di intercedere per i grandi peccatori. Credi forse che userei questa facoltà per gli uomini obbedienti e timorati? No, essa riguarda soltanto gli insozzati dalla mente confusa”. Ibrahim, figlio di un emiro della Battriana, racconta: “Mentre una volta giravo intorno alla Ka’ba, in una notte piovigginosa e scura, mi fermai presso la porta e dissi: ‘mio Signore preservami dal peccato, affinché mai io mi ribelli a Te’. Una voce proveniente dalla Ka’ba mi sussurrò: ‘O Ibrahim mi chiedi di preservarti dal peccato e tutti i miei servi mi chiedono questo. Se io preservassi te e loro dal peccato, su cosa riverserei la mia grazia e chi perdonerei?’”. Il perdono di Dio: sia per gli islamici sia per i cristiani, questa è l’essenza della rivelazione di Allah.

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Lisa Jackson, vicepresidente Apple, a Napoli per i primi 100 diplomi dell’Academy “Saper programmare dà potere. Dovrebbe essere obbligatorio dalle elementari”
Tiziano Toniutti – LA Repubblica – 30 giugno 2017
«La programmazione dovrebbe essere materia di studio dall’età scolare, 8, 10, 12 anni. Abbiamo studenti che hanno appreso le basi a quattro anni», racconta in esclusiva a Repubblica Lisa Jackson con lo sguardo di chi vive già un po’ nel futuro. Dal 2009 al 2013 direttrice dell’Environmental protection agency con l’Amministrazione Obama, ora Jackson è vicepresidente di Apple per le iniziative politiche, sociali e ambientali e ha appena consegnato i primi 100 diplomi ad altrettanti sviluppatori della Apple Developer Academy all’Università Federico II. Perché l’Italia è terra di sviluppatori di app. Certo, non sono ancora tanti quanto i santi e i navigatori, ma il numero è già importante. I 100 diplomatisi oggi hanno iniziato il percorso lo scorso ottobre. Gli altri, partiti a gennaio, sono ancora nella fase di produzione. «L’Italia aveva il più alto numero di sviluppatori in assoluto e il più alto in Europa quest’anno alla WWDC, la conferenza mondiale degli sviluppatori» dice Jackson alla platea complimentandosi per l’impresa dei giovani developer.
E la sfilata dei progetti che segue mostra che oltre alla presenza, anche il livello delle realizzazioni è alto: app che sono sintesi di idee originali e design. «Avete creato qualcosa che può migliorare la vita delle persone, che è la stessa missione di Apple», dice Jackson.
«Sta andando benissimo. Apple ha grandi sogni, e la realtà di Napoli li ha superati. La prova è nel lavoro

AD OTTOBRE LA DEVELOPER ACADEMY COMPIRÀ UN ANNO. POSSIAMO GIÀ FARE UN PRIMO BILANCIO?
degli studenti, il loro collaborare e confrontarsi continuamente tra attitudini e abilità diverse, con entusiasmo.
Le partnership con le università e le istituzioni sono state ottime. Gli studenti sono la chiave, hanno realizzato qualcosa partendo da loro stessi, dalle loro vite, dalle loro passioni. Il risultato va oltre la singola app, è la prospettiva di quello che è possibile realizzare ».
NELLE APP SI NOTANO OTTIME IDEE E TECNICA. COME LE AVETE SCELTE?
«Giudicando il potere di immaginazione degli studenti, che poi si è tradotto nella capacità di realizzare le loro idee: dalle app per l’analisi dei sogni quelle per rendere più semplice la vita dei disabili. Per esempio Chromnia, che aiuta chi non vede a identificare gli oggetti raccontandogli cosa registra la videocamera del telefono. O Hear Me Well, che utilizza i microfoni e l’equalizzazione per far arrivare la voce a chi non sente».
I NUMERI DELLA APP ECONOMY, TRA GIRI D’AFFARI, GUADAGNI E PROFESSIONALITÀ COINVOLTE, SONO GIÀ IMPORTANTI. QUAL È SECONDO LEI IL PIÙ SIGNIFICATIVO?
«Il numero più impressionante sono i tre milioni di sviluppatori solo in Europa. Possono lavorare individualmente o per altri, ma si tratta comunque di una parte importantissima dell’economia di oggi. Questo si traduce nel dare potere alle persone».
COSA C’ENTRA IL SOFTWARE CON IL POTERE?
«Il software è potere. Perché progettare e realizzare bene un’applicazione permette alle persone, agli utenti, di fare di più e di farlo meglio. In questo senso si dà loro un maggior potere. Per questo la programmazione dovrebbe diventare materia di studio obbligatoria già nelle elementari».
PERÒ, ANCHE SE TUTTO INTORNO A NOI È ORMAI CODICE INFORMATICO, LE SCUOLE SONO ANCORA LONTANE DALL’INSEGNARE QUESTO LINGUAGGIO UNIVERSALE. COME SE NE ESCE?
«Noi crediamo che tutti debbano imparare a programmare e abbiamo dei programmi educativi che vanno in questa direzione. Tuttavia la scuola ha un ruolo insostituibile. I bambini oggi usano la tecnologia in modo intuitivo, e programmano quasi naturalmente. E i ragazzi più grandi, come quelli che ho appena incontrato, di qualunque cosa si occupino, architettura, economia, medicina, vogliono imparare a programmare, per rendere più semplice il loro lavoro».
LA PROGRAMMAZIONE È SEMPRE STATA UN’ATTIVITÀ PREVALENTEMENTE MASCHILE. DA QUALCHE TEMPO, E L’ACADEMY DI NAPOLI LO CONFERMA, VEDIAMO SEMPRE PIÙ PROGRAMMATRICI.
«È entusiasmante. Tutti dovremmo essere contenti di questo interesse del mondo femminile nella tecnologia e nella programmazione. Ma non è una cosa scontata o garantita: le ragazze vanno incoraggiate, dobbiamo essere sicuri di non dire alle bambine che programmare non è per loro. Quando ero una studentessa, la mia insegnante di scienze mi diede un segnale chiaro: “Questo è qualcosa che puoi fare”».
CHE CONSIGLIO HA PER UNA RAGAZZA O UN RAGAZZO ITALIANO CHE SOGNANO UN FUTURO NEL MONDO DEGLI SVILUPPATORI DI APP?
«Naturalmente la tecnica è importante, ma altrettanto lo è lo studio delle materie umanistiche: letteratura, arte, musica. Perché l’umanità è una componente fondamentale. Solo in questo modo l’app che creerete diventerà speciale. Come ha detto Steve Jobs: è l’incontro tra la tecnologia e le arti umane che fa cantare il nostro cuore».

Tempo di una cittadinanza digitale più libera e responsabile

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Rinascimento collaborativo
Luca Conti – NOVA24 Il Sole 24 Ore domenica – 25 Giugno 2017

Nascono piattaforme per turismo, social network viaggi e musica. Create dal basso contro il potere dei big. Con maggior equità
Un nuovo Rinascimento, in beta permanente. Oltre Uber e AirBnB, l’ecosistema dell’economia collaborativa si reinventa ed evolve, con nuovi esperimenti sociali che vedono la persona tornare al centro. Accanto al modello di startup supportato da fondi di investimento di venture capital e azionisti di controllo, si fa spazio un modello cooperativo, con nuove realtà supportate dagli utenti che usano le piattaforme. Un cambio di paradigma reso possibile dalla nascita di strumenti innovativi che permettono di organizzare la partecipazione dal basso in maniera più efficiente rispetto al passato, come Loomio e OpenCollective. Una spinta ulteriore, verso soluzioni alternative, viene dall’aumento del potere(e della capitalizzazione) dei cinque grandi dell’economia digitale – Google, Apple, Microsoft, Facebook e Amazon – e dai rischi derivanti dalla concentrazione in poche mani dei dati personali di milioni di persone e dall’uso manipolatorio dei dati stessi, tra fake news e sorveglianza dei governi.
Un insieme di condizioni che ha stimolato sviluppatori, imprenditori e ricercatori a lanciare nuovi progetti, con l’obiettivo di rendere più equa l’economia dello scambio di servizi tra utenti. Gli ambiti in cui questo mondo si sta sviluppando sono quelli dove la disruption digitale sta cambiando più rapidamente le abitudini di milioni di persone: turismo alternativo, streaming di musica, condivisione di contenuti e gestione delle relazioni, elettronica di consumo, sostegno dal basso dei produttori di contenuti.
Un percorso quasi naturale – un nuovo Rinascimento, secondo la definizione di Douglas Rushkoff – in cui la partecipazione attiva degli utenti si avvantaggia di un cambio di prospettiva, in termini di consapevolezza e di responsabilità sociale. Un percorso in cui le piattaforme di carattere cooperativo e federale, come Mastodon o Resonate, sono un passo avanti in un lungo cammino tutto da compiere e non un punto di arrivo.
I primi pionieri che stanno popolando queste piattaforme, alternative a Facebook, Twitter, Spotify, eBay, sono consapevoli di vivere un esperimento sociale, su scala globale, in cui testare nuovi modelli di business. Forme di coinvolgimento in cui sono gli utenti a decidere quali servizi sviluppare in base ai propri bisogni, sostenendoli in prima persona, mettendo mano al borsellino elettronico. Non si tratta né di un fenomeno mediatico, né di una vera minaccia allo status quo, ma di un segno concreto dell’esistenza di una domanda reale, di un modo diverso di concepire la cittadinanza digitale.
Il pubblico che partecipa attivamente allo sviluppo delle nuove piattaforme cooperative è più diversificato rispetto alla nicchia, più o meno estesa, che ha promosso i valori del software libero e dell’open source. Oggi ne fanno parte anche nuovi soggetti, sensibili ai temi del commercio equo e solidale, della libertà di espressione in rete e dell’ambientalismo. I progetti FairPhone e FairBnB, entrambi nati ad Amsterdam, sono un esempio nella ricerca di maggiore equità sociale all’interno dell’economia digitale. Un percorso ricco di sfide e di resistenza al cambiamento, ma non per questo impossibile da realizzare.
Fairphone si è scontrato e si scontra con la realtà dell’economia globale, in cui la complessità delle relazioni economiche non facilita la certificazione in senso equo delle materie prime e dei processi produttivi, ma non per questo si è arreso. Il prossimo smartphone Fairphone 2 sarà in distribuzione entro la fine dell’anno, in tutta Europa, con l’interessamento di alcuni operatori telefonici. FairBnB si trova in una fase di sviluppo meno avanzata, ma entro l’anno si prevede la partenza dei primi progetti-pilota in alcune delle città dove il movimento culturale, che promuove un turismo digitale a supporto dell’economia dei territori, è già coeso, come Barcellona, Amsterdam o Venezia. La fondazione che promuove il progetto ha diffuso un manifesto su cui sta raccogliendo adesioni, in un momento in cui AirBnB si trova a fronteggiare in molti territori limitazioni e regolamenti promossi dai governi locali.
Le conquiste della ricerca tecnologica sono anch’esse uno dei fattori che favoriscono i movimenti dal basso. Il machine learning può venire in aiuto di progetti alternativi, consentendo di analizzare dati, per aumentare l’efficienza dei servizi offerti, capitalizzando sull’esperienza dei giganti del web. Ride Austin, soggetto no profit nato nella città texana per offrire una alternativa ai servizi offerti da Uber e Lyft, è riuscito in questo modo a ridurre i tempi di attesa dei suoi piloti, individuando i punti di salita più frequenti. Il risultato ha permesso di offrire tariffe competitive, garantendo ai piloti un margine economico superiore, dimostrando che piattaforme organizzate dal basso possono realmente competere.
Le piattaforme cooperative, qualsiasi sia la loro ragione sociale, hanno il potenziale per far nascere una nuova era del web collaborativo. Dalla fase di scoperta e di affermazione delle piattaforme di condivisione, cresciute fino a diventare monopolisti quotati sui mercati azionari, la rete sta vivendo una fase di acquisizione di consapevolezza dei limiti e dei rischi di tali concentrazioni e del valore dei dati e della privacy. Le piattaforme emergenti sono una palestra di idee, in costruzione e ancora poco frequentata, dove potrebbe nascere il web di prossima generazione. Vincerà chi sarà in grado di unire visione, competitività e valori, in un nuovo Rinascimento che riporta al centro la persona.

La forza latente dell’eurozona

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Daniel Gros – 8 Giugno 2017 – Il Sole 24 Ore

A dispetto della narrazione di un continente in crisi, la ripresa è tangibile
Per anni l’Eurozona è stata percepita come un’area disastrosa, e spesso le discussioni sul futuro dell’unione monetaria hanno paventato un suo possibile crollo. Quando i britannici hanno votato per abbandonare l’Unione europea lo scorso anno, erano spinti in parte dalla percezione che l’Eurozona fosse un progetto disfunzionale – e forse insalvabile. Eppure, ultimamente l’Eurozona è diventata la beniamina dei mercati finanziari – e per una buona ragione: era da tempo che si cercava la sua forza latente. Negli ultimi anni essa ha tentato di riprendersi dalla crisi del 2011-2012. Su una base pro capite, la sua crescita economica ora supera quella degli Stati Uniti. Il tasso di disoccupazione è in calo – più lentamente che negli Usa, a essere onesti – ma ciò riflette in parte la divergenza dei trend di partecipazione della forza lavoro.
La partecipazione della forza lavoro è infatti in ascesa nell’Eurozona, mentre registra una contrazione negli Usa all’incirca dal 2000. L’abbandono degli americani del mercato del lavoro riflette quello che gli economisti chiamano il fenomeno del “lavoratore scoraggiato”. E il trend evidenzia un’accelerazione dalla recessione del 2009.
In linea di principio, la flessione della partecipazione della forza lavoro dovrebbe essere un problema anche nell’Eurozona, dato il prolungato periodo di tempo dell’elevatissimo livello di disoccupazione che ha colpito molti lavoratori europei. Ma, negli ultimi cinque anni, 2,5 milioni di persone nell’Eurozona sono entrate nella forza lavoro, a fronte della creazione di cinque milioni di posti di lavoro, così dimezzando il generale calo della disoccupazione.
Inoltre, la ripresa dell’Eurozona è stata sostenuta, per certi versi inaspettatamente, anche in assenza di continui stimoli fiscali. Le accese discussioni sull’austerità degli ultimi anni appaiono malriposte, dal momento che sia i critici che i fautori hanno sovrastimato la quantità di austerità applicata. Il deficit fiscale medio, in termini corretti per il ciclo, è piuttosto costante dal 2014, attestandosi all’incirca all’1% del Pil. Ovviamente restano le ampie differenze nella posizione fiscale dei singoli stati membri. Ma è ciò che ci si aspetta in un’unione monetaria così diversa. La verità è che persino la Francia, spesso considerata una performer debole, registra livelli di deficit e di debito comparabili a quelli degli Stati Uniti.
Il confronto con gli Usa, così come con il Giappone, indebolisce anche la comune percezione che le regole fiscali dell’Eurozona, compresi l’infausto Patto di stabilità e crescita e il “fiscal compact” del 2012, siano state irrilevanti. Vero, nessun Paese è stato ufficialmente sanzionato per i deficit o i debiti eccessivi. Ma il marginale clamore sulle infrazioni ha fatto passare in secondo piano l’ampio trend sottostante verso le solide finanze pubbliche favorito proprio dalle regole fiscali. Tutto ciò suggerisce che la “soft austerity” perseguita in molti Paesi dell’Eurozona sia stata forse la scelta giusta dopo tutto. Non bisogna certamente sovrastimare la forza economica a lungo termine dell’Eurozona. Il tasso medio di crescita potrebbe restare sopra il 2% per i prossimi anni, ma a fronte dell’assorbimento dei restanti disoccupati e del persistente trend a lungo termine dei lavoratori più anziani che rientreranno nel mercato del lavoro la manodopera non utilizzata alla fine si esaurirà.
Una volta che l’Eurozona avrà raggiunto il cosiddetto “punto di svolta di Lewis” – ossia quando l’eccedenza di manodopera scarseggia e i salari iniziano a crescere – i tassi di crescita scenderanno a un livello che rifletterà esattamente le dinamiche demografiche. E queste dinamiche non sono particolarmente auspicabili: la popolazione attiva dell’Eurozona è destinata a diminuire di circa mezzo punto percentuale l’anno almeno per il prossimo decennio.
Eppure, anche allora, il tasso di crescita pro capite dell’Eurozona non sarà con buona probabilità tanto inferiore rispetto a quello degli Usa, perché la differenza dei tassi di crescita della produttività è ora minore. In questo senso, il futuro dell’Eurozona potrebbe somigliare più al presente del Giappone, caratterizzato da una crescita tendenziale annua appena sopra l’1% e da un’inflazione tenacemente bassa, ma da una crescita del reddito pro capite simile a quello di Usa o Europa. Fortunatamente per l’Eurozona, entrerà in questo periodo di elevata occupazione e lenta crescita su una base solida – grazie, in parte a quella controversa austerity. Per contro, sia gli Usa che il Giappone dovranno far fronte a una piena occupazione con disavanzi fiscali superiori al 3% del Pil – circa 2-3 punti percentuali in più rispetto a quelli dell’Eurozona. Gli Stati Uniti e il Giappone registreranno anche debiti più pesanti: il rapporto debito/Pil si attesta al 107% negli Usa e a oltre il 200% in Giappone, rispetto al 90% dell’Eurozona.
È evidente che sulla scia di una crisi finanziaria, quando la politica monetaria diventa inefficace – ad esempio, perché i tassi di interesse nominali sono vicini allo zero – il deficit pubblico può avere un impatto stabilizzante insolitamente solido. Resta però irrisolta una questione chiave: una volta che i mercati finanziari rientrano nella norma, è sufficiente mantenere un deficit per un lungo periodo per garantire uno stimolo continuo?
Il fatto che la ripresa dell’Eurozona stia ora recuperando su quella degli Stati Uniti, malgrado la sua mancanza di qualsiasi stimolo continuo, suggerisce che la risposta sia no. Di fatto, l’esperienza dell’Eurozona ci dice che mentre lo stimolo fiscale concertato riesce a fare la differenza durante una recessione acuta, è preferibile abbandonare quello stimolo quando non è più vitale che mantenerlo all’infinito. Con l’austerità – ossia, riducendo il disavanzo una volta finita recessione – la ripresa potrebbe richiedere più tempo prima di consolidarsi; ma una volta raggiunto lo scopo, la performance economica sarà persino più stabile, perché i conti del governo si troveranno in una posizione sostenibile.
John Maynard Keynes una volta disse, «Nel lungo periodo, siamo tutti morti». Ciò potrebbe essere vero in un lasso di tempo piuttosto lungo. Ma non è una scusa per accantonare le considerazioni a lungo termine. Di fatto, per l’Eurozona, il lungo periodo sembra essere arrivato – e l’economia è ancora viva e vegeta.
Traduzione di Simona Polverino
Daniel Gros è direttore
del Center for European Policy Studies

Bernabè: impossibile limitare i big

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La sicurezza della rete non è garantita se solo le tlc sono regolamentate


Antonella Olivieri – 3 Giugno 2017 – Il Sole 24 Ore
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«L’attacco informatico globale di metà maggio? Non è il primo e, purtroppo, non sarà l’ultimo. E con lo sviluppo dell’Internet delle cose le insidie saranno ancora maggiori».

Franco Bernabè è un esperto in materia perché negli ultimi anni ha lavorato in settori dove queste tematiche sono all’ordine del giorno.
Perché ha lavorato prima nelle tlc, alla guida di Telecom Italia e oggi lavora nel sistema dei pagamenti con Icbpi e CartaSì di cui è presidente. Ed è un esperto in materia anche per avere scritto un saggio « Libertà vigilata» che tratta l’argomento della invasività dei giganti del web nella privacy degli spesso ignari utenti.
WannaCry ha colpito 150 Paesi, scompigliando ospedali, università e grandi aziende come Renault e Telefonica. Poi, un supposto hackeraggio a British Airways, che ha denunciato una grave avaria al sistema dei computer e ha bloccato i voli da Londra.

Come mai non si è saputo nulla di aziende italiane? Sono più attrezzate delle altre o è solo fortuna?
I problemi emergono dove c’è più sensibilità e dove ci sono incentivi a farli emergere. Per esempio la Cina dal 1° giugno ha adottato misure di cybersecurity particolarmente rigide che da una parte mirano a proteggere i dati personali e a regolamentare l’utilizzo dei contenuti, ma dall’altra di fatto alzano un muro informatico intorno al Paese. Da noi invece c’è meno sensibilità e ci sono possibili disincentivi. Siccome la carenza di misure di sicurezza adeguate ha rilievo penale, è possibile che, per non passare guai, chi è stato colpito non l’abbia dichiarato. Del resto, la tipologia di malware che ha infettato mezzo mondo due settimane fa aveva già provocato grossi problemi in Italia in passato. Va anche detto che molte nostre aziende hanno una difesa efficace, perché sono dotate di team di cybersecurity ben attrezzati.
Come nascono questi fenomeni ai quali, da quanto sembra di capire, dovremo abituarci?
Nel caso specifico si tratta di una vulnerabilità, già nota, di Windows che tecnicamente si chiama exploit EternalBlue. Un sistema che si dice sia stato sviluppato dalla Nsa, l’Agenzia per la sicurezza nazionale Usa, alla quale è stato sottratto illecitamente probabilmente assieme ad altri virus. In pratica viene inviato un programma eseguibile con un malware nascosto in un allegato o in un finto pdf, oppure, peggio ancora, il virus viene agganciato da un browser.
Ma lo scopo qual è?
Normalmente il denaro. Ci sono due tipi di virus, quelli che attaccano vulnerabilità già note e gli “zero-day” che attaccano vulnerabilità non ancora conosciute. Questa seconda tipologia può valere anche 200mila dollari e può trovare compratori sia nella società che ha sviluppato il software per sistemare la falla, sia nelle associazioni criminali che poi utilizzano questi sistemi per bloccare i computer e chiedere il riscatto. C’è comunque tutta una serie di altre motivazioni che va dal puro vandalismo a veri e propri atti di guerra cibernetica. In ogni caso il problema va ricercato nell’architettura di Internet, concepito all’origine senza un sistema nativo di sicurezza.
E cioè?
Ci sono quattro condizioni perché un sistema possa essere considerato sicuro: l’accertamento dell’identità dell’utente (nelle tlc c’è) e l’autenticazione (su Internet si tratta di un puro rapporto tra macchine, si usa la password, che è un meccanismo “debole”), il sistema deve anche garantire la confidenzialità e l’integrità dei dati trasmessi.
Quindi si può concludere che Internet non è sicuro?
Internet non è stato creato per l’utilizzo che ne viene fatto oggi. Intenzionalmente non era stato progettato per garantire la sicurezza. Da una parte per la cultura da “figli dei fiori” degli ingegneri californiani che l’avevano progettato negli anni 70, utopicamente come strumento di “liberazione”. E dall’altra perché il Pentagono e i servizi di sicurezza americani lo concepivano come mezzo utile ai fini della sicurezza nazionale. Nessuno però, allora, avrebbe immaginato che Internet avrebbe assunto la rilevanza che ha oggi.
Appunto, come si è arrivati a creare i giganti che oggi dominano il web?
In origine Internet era un’infrastruttura interamente controllata dallo Stato, ma verso la metà degli anni 90 l’amministrazione Clinton decise di aprirne l’utilizzo per fini commerciali. Inoltre, con la riforma della legge sulle comunicazioni del 1996, gli operatori di Internet vennero svincolati da qualsiasi forma di regolamentazione, distinguendoli così dalle telco che invece rimanevano un settore regolato. Questo elemento, assieme alle straordinarie esternalità di rete che Internet offre, ha aperto al strada alla creazione di giganteschi monopoli. La riforma inizialmente prevedeva una protezione contro la pornografia, in particolare quella infantile, ma questa tutela venne abolita quasi subito dalla Corte Suprema americana in nome della libertà di espressione garantita dal primo emendamento della Costituzione americana. La Corte confermò però l’esenzione della responsabilità per la diffusione di contenuti prodotti da terzi, già contemplata nella section 230 del Communication Decency Act. In questo modo si è aperto il varco a un esercito di imbecilli nel fare concorrenza ai muri delle latrine: le scritte volgari sono scomparse ed è esploso il fenomeno degli haters.
Un “errore” di regolamentazione quindi?
Non c’è errore, perché sia la scelta di omettere meccanismi di sicurezza, sia la scelta di garantire l’immunità riguardo alla pubblicazione di contenuti, sono state volute da chi negli Stati Uniti aveva il potere di farlo. È così che è stata messa in crisi l’industria della musica, dei media tradizionali e di tanti altri settori.
E adesso?
Adesso abbiamo un grande problema di sicurezza, che diventerà ancora più grande con lo sviluppo dell’Internet delle cose. Problemi che con le tlc, proprio perché regolamentate, non ci sono mai stati.
Non si può fare qualcosa per rimediare?
L’unico modo è dedicare risorse sempre più importanti al tema della sicurezza, risorse di cui molti Stati, alle prese con i problemi di bilancio, non dispongono o non dispongono in misura sufficiente. Occorrerebbe inoltre investire su figure di estrema professionalità e avere in materia una cultura diffusa nelle amministrazioni pubbliche e nelle aziende.
Oggi non avrebbero interesse anche gli Stati Uniti a porre limiti ai giganti che hanno creato?
Google, Apple, Facebook e Microsoft, insieme, hanno una capitalizzazione di Borsa equivalente al Pil della Francia. Chi può contrastarli? Ormai sono più potenti dei Governi. Nella fase di rinegoziazione dell’accordo “Safe Harbor”, che permetteva alle aziende americane di trasferire negli Usa i dati personali dei cittadini europei e di operare di fatto come a casa loro, i big del web hanno speso per l’attività di lobbying cifre enormi. L’accordo, che era stato siglato con la Ue nel 2000, è stato faticosamente rinegoziato dopo 15 anni, ma senza cambiare moltissimo nella sostanza.
Almeno le transazioni elettroniche sono sicure?
Le transazioni elettroniche sono gestite con sistemi di sicurezza estremamente stringenti e sono sotto il costante monitoraggio delle Banche centrali. Finché il sistema finanziario sarà regolamentato e sorvegliato dalle Banche centrali difficilmente si verificheranno i problemi che si sono registrati in altri settori, contrariamente a quanto avverrebbe se si andasse invece verso una liberalizzazione selvaggia, come qualcuno auspica .

‎ “Non solo progresso serve un’altra utopia”

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Intervista al teorico francese Michel Serres, che di fronte alla crisi attuale e ai rischi di nuove violenze propone una filosofia della storia alternativa: aperta e ottimista

FABIO GAMBARO – Repubblica – 6‎/‎06‎/‎2017
PARIGI
In questi tempi duri di crisi e d’incertezze, il filosofo prova a guardare la realtà con altri occhi, cambiando punto di vista e valorizzando quello che troppo spesso si tende a dimenticare: l’epoca di pace e di progresso in cui viviamo da oltre settant’anni. Lo spiega con intelligenza e passione nel nuovo saggio intitolato “Darwin, Napoleone e il samaritano” (Bollati Boringhieri), in cui propone niente meno che una nuova filosofia della storia adatta all’andamento erratico dell’epoca contemporanea. Dopo la fine
delle grandi narrazioni, colui che Le Monde ha definito «un Montaigne dell’era digitale», sente infatti il bisogno di restituire un senso al nostro divenire e una prospettiva — relativa e provvisoria — alla condizione umana.
Conscio dei rischi di una simile operazione, il ragionamento di Serres parte da una riflessione sul passato e sulle sue illusioni: «Nel XIX e XX secolo, le filosofie della storia hanno condotto all’impasse e alla catastrofe. Nate dalla filosofia dell’illuminismo, hanno prodotto un’idea di progresso inevitabile e costante che postulava un mondo in continuo miglioramento. Hiroshima ha fatto a pezzi questa illusione, segnando la fine di tale filosofia. Da allora sappiamo che il prezzo del progresso è talvolta altissimo», spiega l’autore di Non è un mondo per vecchi e Il mancino zoppo, ricevendoci nella sua casa alle porte di Parigi. «Così oggi non abbiamo più una vera filosofia della storia e manchiamo di una direzione da seguire. Anche la politica sembra a corto d’idee. E se i politici non sono più capaci di governare, è perché siamo privi di progetti e utopie. Per questo abbiamo bisogno una nuova filosofia della storia».
Lei ne propone una che non è più lineare né a senso unico. È una filosofia della storia che ha perso le sue sicurezze?
«Con Hiroshima abbiamo scoperto che il progresso scientifico, invece di essere sempre positivo, poteva diventare assassino. Ma dopo la tragedia atomica è anche vero che alcune persone straordinarie hanno avviato la costruzione dell’Europa unita che ci ha permesso di vivere in pace per settant’anni. Non era mai successo prima. A partire da queste due novità di segno diverso, ho riletto la storia recente in un’altra prospettiva, elaborando una filosofia della storia in cui la relazione spazio/tempo è complessa e relativa. Da qui un’idea di progresso non più lineare, senza un fine: solo un insieme di possibili di segno diverso. Il mio avvenire è fatto di paesaggi contrastanti e contraddittori».
Avere questa consapevolezza cosa cambia?
«Per esempio ci consente di guardare la storia passata dal punto di vista delle vittime. In passato ci si è interessati solo ai vincitori che incarnavano il senso della storia. Io però, se penso a Napoleone, non penso alle conquiste, ma agli innumerevoli morti che ha provocato. L’attenzione alle vittime ci aiuta ad avere coscienza di quanto la pace sia un bene prezioso che dobbiamo preservare e difendere ad ogni costo. Lo stesso vale per la salvaguardia del pianeta. Comprendere che la storia non è una progressione lineare, dovrebbe spingerci ancor di più a difendere il nostro ecosistema. Insomma, dobbiamo essere sempre più vigilanti perché tutto è molto più difficile di quello che credevamo. La storia non avanza da sola verso il bene e il progresso».
Significa che gli individui hanno una nuova e più grande responsabilità per ognuna delle loro scelte?
«Non esiste più una ragione della storia che noi dobbiamo solo accompagnare, come pensavano Hegel e Marx. Siamo noi che dobbiamo inventare la storia, questa è la nostra nuova responsabilità. Inoltre, alle nostre spalle non c’è solamente la storia nata con la scrittura, ma l’intera storia del pianeta, i cui codici sono iscritti in ogni cosa. Di conseguenza la totalità della realtà naturale fa parte della nostra eredità. Bisogna quindi prendersene cura».
A Napoleone, simbolo dell’età della guerra e della violenza, lei contrappone alcuni eroi positivi, che sarebbero i simboli dell’epoca di pace contemporanea…
«La nostra epoca è innanzitutto quella del miracolo della medicina. Il samaritano che si prende cura di colui che soffre è il simbolo di questo atteggiamento nei confronti degli altri, dell’empatia per il prossimo. Ho ricordato anche François de Callières, che, al servizio di Luigi XIV, ha scritto un trattato sull’arte di negoziare. È il simbolo della diplomazia che cerca di evitare ad ogni costo la guerra. Infine, ho scelto come terzo eroe di questa nostra età della pace Pollicina, la bambina che usa e controlla le nuove tecnologie aprendo nuove frontiere e nuove prospettive».
Nella sua riflessione sembrano echeggiare il pessimismo della ragione e l’ottimismo della volontà di Gramsci. È così?
«Quello di Gramsci potrebbe essere il mio motto. Oggi in Francia domina il pessimismo, io vorrei contrapporre un ottimismo temperato che deve soprattutto essere uno strumento per combattere in nome della pace e della salvaguardia del pianeta».
Nella realtà però esplode spesso una violenza cieca e indiscriminata.
«Siamo tutti portatori sani di violenza e in ciascuno di noi c’è una dimensione che può trasformarsi in violenza. Persone rispettabili possono diventare belve assassine. La Germania prima della guerra era all’avanguardia delle arti e della filosofia, eppure si è affidata al nazismo. La cultura non impedisce la barbarie, bisogna sempre essere vigili. La filosofia della storia che ho delineato ci aiuta a combattere la violenza potenziale che è in noi. La storia passata è una sequenza di lacrime e sangue da cui siamo usciti solo da poco. Solo se ne abbiamo coscienza, terremo a bada la violenza che è in noi. Solo guardando al passato, eviteremo di ripetere gli stessi errori nel presente».
Non le sembra che il terrorismo esprima una violenza incontrollabile su cui abbiamo poco possibilità d’intervento?
«È vero, ma va detto che gli attentati non sono certo una novità di questi nostri anni. La storia passata ne è piena. Inoltre, anche la violenza del terrorismo va relativizzata e rimessa in una prospettiva storica. Per quanto gli ultimi attentati siano una tragedia dolorosa, le decine di vittime di Parigi, Manchester, Nizza o Londra non sono nulla di fronte al bombardamento di Dresda che fece duecentomila morti in una sola notte o alla battaglia napoleonica di Borodino nella quale morirono decine di migliaia di persone in un solo giorno. Oggi la morte per guerra o terrorismo è l’ultima delle cause di mortalità. Viviamo in un tempo di pace. E se le vittime degli attentati sono innocenti, purtroppo lo erano anche le vittime d’Hiroshima. Detto ciò è chiaro che bisogna fare di tutto per combattere e prevenire la violenza del terrorismo ».

Discorso sul futuro di internet

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Privacy e neutralità, ma anche paura per l’automazione del lavoro: l’evoluzione digitale vista dai cittadini europei

Fiorenza Lipparini – NOVA24 – Il Sole 24 Ore domenica – 4 Giugno 2017


Che cosa si aspettano gli europei dalle tecnologie dell’Internet nei prossimi dieci anni? Il primo dato che emerge della consultazione promossa dal progetto REIsearch per coinvolgere i cittadini dell’Unione nel dibattito sul futuro della rete è che il tema interessa solo una piccola parte della popolazione, per lo più uomini tra i 25 e i 55 anni, laureati e che spesso lavorano o fanno ricerca nel settore. Meno del 25% dei partecipanti alla consultazione online – che ha visto coinvolte 23mila persone e ottenuto 4mila risposte complete – sono donne, e meno dell’1% sono ragazzi sotto i 16 anni. La situazione non cambia se guardiamo alla network and sentiment analysis: tra le oltre 350mila persone che parlavano del futuro di internet tra novembre e aprile di quest’anno, meno di 15mila (4%) avevano meno di 21 anni e meno di 87mila (24%) erano donne.
Nonostante i limiti evidenti di entrambi gli approcci utilizzati per catturare i pensieri, le paure, le priorità e le speranze degli europei rispetto al futuro di internet e al suo potenziale impatto sulle nostre vite, sul mercato e sulla società, il problema di partecipazione è evidente. Si tratta di un tema fondamentale: l’assenza di diversità tende infatti ad auto-rinforzarsi, seguendo un meccanismo simile a quello delle “echo-chambers”, le bolle informative rese possibili dagli algoritmi che governano i flussi di ciò che vediamo su internet e che ci portano progressivamente a interagire solo con persone e contenuti simili a noi e a quello che pensiamo.
I risultati forniscono alcune indicazioni sulle priorità che i cittadini vorrebbero riflesse nelle strategie digitali dell’Unione e degli stati membri. C’è grande consapevolezza sia dei rischi che delle opportunità implicate dalla rivoluzione tecnologica in corso, e un genuino interesse nel capire meglio la direzione di viaggio, al di là degli eccessi tanto dell’ottimismo che del pessimismo tecnocratici. Molte delle conversazioni monitorate su social media, infatti, ruotano intorno alla necessità di preservare la neutralità della rete – e di conseguenza l’accesso a internet per tutti, assicurare la privacy, la sicurezza e la tutela della proprietà dei dati di chi naviga. Quasi il 90% dei partecipanti alla consultazione desidera che i social media del futuro consentano di avere pieno controllo dei propri dati personali. L’88% ritiene che la privacy sia il valore europeo più importante da difendere, seguito dalla decentralizzazione per evitare l’instaurarsi di monopoli (74%).
Emerge inoltre un’autentica preoccupazione sulla possibilità che la profilazione degli utenti basata sull’analisi dei loro dati stia minando il processo democratico, falsando l’esito di eventi fondamentali come le elezioni. La diffidenza nei confronti delle imprese che gestiscono grandi quantità di dati è lampante: l’80% dei partecipanti ritiene importante limitarne il potere, e oltre il 70% vorrebbe più fondi investiti per la creazione di piattaforme europee basate su principi democratici e open-source che potrebbero costituire un’alternativa decentralizzata alle grandi piattaforme americane. Quasi l’80% concorda sul fatto che è necessario agire per arginare fenomeni come le fake news e le eco-chambers, soprattutto investendo costantemente nello sviluppo del senso critico dei cittadini. C’è inoltre un difficile equilibrio ancora da trovare tra il diritto all’accesso all’informazione e quello alla libertà di parola, per cui mentre una maggioranza di persone appoggia un approccio regolamentare “duro” per quanto riguarda la protezione dei dati e della privacy, per quanto riguarda le fake-news la regolamentazione non sembra la risposta giusta, perché troppo vicina a forme di censura e controllo sociale potenzialmente ancora più pericolose per la democrazia.
Queste preoccupazioni sono anche al centro delle discussioni su potenziali nuovi prodotti, servizi ed imprese da sviluppare usando tecnologie come l’intelligenza artificiale, l’analisi dei dati, la realtà virtuale e l’internet delle cose (Iot): l’Europa, che vanta oggi una legislazione tra le più avanzate del mondo per quanto riguarda la sicurezza informatica, la protezione dei dati personali e la tutela della privacy, ha il potenziale per diventare il primo player globale nello sviluppo di soluzioni di prodotti e servizi (software, hardware, servizi di hosting e gestione dei dati, ecc.) che incontrino le esigenze e le aspettative degli europei in termini di sicurezza e privacy.
Infine, vi è grande apprensione circa le implicazioni sociali del processo di automatizzazione del lavoro, e in particolare in relazione alla sofisticazione crescente dei sistemi di intelligenza artificiale che potrebbero rendere ridondanti molti lavoratori nel settore dei servizi. Di fatto, solo uno su cinque di chi ha risposto ritiene che l’avvento delle nuove tecnologie internet migliorerà le condizioni di lavoro di tutti gli Europei. L’aspetto più interessante rimane però la grande aspettativa nei confronti della mano pubblica, alla quale è richiesto di saper intercettare e gestire la rivoluzione digitale adattando i sistemi di protezione sociale vigenti in modo da assicurare una ridistribuzione non tanto dei profitti, ma della possibilità di sviluppare capacità e conoscenze tali da mettere ognuno nella posizione di approfittare al meglio dell’internet del futuro.

Fukuyama: “Donald distrugge tutto. Ma gli europei non devono mollare”

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Lo storico: “Raramente America e Ue hanno avuto rapporti così freddi Il presidente ha seri problemi con la democrazia e i suoi valori. Ma il dialogo continui”

Antonello Guerrera – Repubblica – 29 maggio 2017

«Sì, purtroppo le relazioni tra Stati Uniti ed Europa raramente sono state così ai minimi termini. E la colpa è tutta di Donald Trump. Lo abbiamo visto al G7 di Taormina. Il presidente americano è un pericoloso incompetente, che ha dimostrato di avere seri problemi con il mondo democratico, e conseguentemente con l’Europa, lasciata sola. Questa è la cosa più inquietante per il futuro dell’Occidente ».
Lo dice a RepubblicaFrancis Fukuyama, 64 anni, il grande storico e politilogo americano della “Fine della storia”, professore a Stanford, autore di numerosi saggi sull’ordine mondiale e attento osservatore della politica estera americana. Dopo le parole durissime della cancelliera tedesca Merkel contro Trump («L’America non è più affidabile, l’Europa deve pensare a se stessa»), ecco l’amaro sfogo di Fukuyama.
Professor Fukuyama, perché il G7 di Taormina è andato così male? Perché il vertice ha provocato una spaccatura così ampia tra Stati Uniti ed Europa?
«Perché abbiamo assistito al disastro della politica estera americana. Nessun presidente statunitense in passato aveva trattato i leader democratici europei allo stesso modo degli autocrati. Trump invece lo ha fatto. Perché non sa cos’è la diplomazia, non riesce a relazionarsi con leader europei maturi e liberali. Nella teocratica Arabia Saudita al contrario si trova benissimo, così come con Putin o con l’egiziano Al Sisi».
E ora quali conseguenze ci saranno per l’Occidente e l’alleanza atlantica?
«Abbiamo avuto una comunità democratica in Occidente che è sopravvissuta persino alla Guerra fredda. Trump rischia di distruggere tutto, perché non condivide più quegli storici valori comuni. È questa la cosa più preoccupante. Al G7 non ha detto niente sulla democrazia, sui diritti umani, sulla condivisione dei problemi occidentali. E, si badi, non è solo strategia nelle trattative coi partner. Trump, semplicemente, ha gravissime lacune nei valori democratici e nella tradizione americana con gli europei».
E quindi ora cosa devono fare gli europei?
Vedersela da soli?
«No. Devono continuare a trattare, anche con uno come Trump. Devono pensare che il presidente non potrà mettere molte promesse in pratica, perché sono irrealistiche, perché verranno annacquate dalla sua stessa amministrazione o perché il sistema di checks & balances (“controlli e contrappesi” tra i poteri negl Usa, ndr) resisterà anche a Trump, che sarà un mezzo fallimento. La politica estera americana, a lungo termine, non cambierà così tanto dal passato, soprattutto sul terrorismo».
Ma la cancelliera Merkel ha detto, clamorosamente, che l’America non è più affidabile e che l’Europa deve cominciare a pensare a se stessa.
«Gli europei devono tenere duro per preservare la nostra alleanza. Trump è un fenomeno passeggero e sui generis, non rappresenta la società americana, che sta andando in tutt’altra direzione. Non credo nell’impeachment. Ma l’ultima inchiesta “Russiagate” dell’Fbi sul genero e consigliere Kushner mi pare molto più seria delle inchieste precedenti. L’economia americana sinora è andata bene ma potrebbe presto dare i primi segni di cedimento. E se Trump si rivelerà inefficien- te e deleterio come abbiamo visto sinora, la base repubblicana potrebbe cominciare a sgretolarsi, il partito perdere le elezioni di mid-term (di metà mandato, nel 2018, ndr) e quindi subire un serio colpo alla sua Presidenza ».
Come vede il futuro dell’Occidente?
«Male. Credo che torneremo a un mondo multipolare, che somiglierà alla fine del XIX secolo, e con gli Stati Uniti che staranno per conto loro, aprendo dunque voragini a livello geopolitico. Il G7 aveva già perso moltissima importanza a livello geopolitico, ma Trump a Taormina ha staccato la spina. Se persino gli Stati Uniti abbandonano l’orbita della democrazia e dei valori occidentali, che senso ha tenere summit del genere?».
E quindi quali saranno le conseguenze?
«Se l’America non crede più ai propri principi le ripercussioni ci saranno per tutto il mondo, non solo per l’Occidente, soprattutto nell’ambito del “soft power” (ossia la capacità in politica estera di ottenere risultati non con la forza ma con la diplomazia e altre “armi” come cultura, politica e valori, ndr). Come reagiranno i paesi che prima guardavano all’Occidente e agli Usa come un modello? La Russia ha già approfittato di questa crisi di coscienza dell’America e in parte dell’Europa, come abbiamo visto. Per il futuro dell’Occidente non si può certo essere ottimisti».

L’advertising intelligente

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La pubblicità arriverà a «parlare» con l’utente sulla base dei suoi gusti

Alessio Jacona

NOVA24 21 Maggio 2017 Il Sole 24 Ore domenica

Mentre cammina in strada, Chris Anderton incrocia cartelloni pubblicitari animati e interattivi: gli si rivolgono chiamandolo per nome, presentando offerte basate sui suoi gusti e necessità. Siamo nel 2002: quando Tom Cruise arriva al cinema come protagonista di Minority Report, l’idea di un “personal advertising” che si adatti al potenziale cliente in tempo reale ovunque si trovi è – per l’appunto – semplice fantascienza.
Oggi le cose stanno diversamente: grazie alla rete, alle tecnologie che essa porta in dote e a un uso crescente di intelligenze artificiali sempre più capaci, il futuro dell’advertising immaginato da Philp K.Dick (peraltro nel lontano 1991) appare non solo possibile, ma anzi prossimo e ormai inevitabile.
«Grazie all’uso estensivo dell’intelligenza artificiale (Ia), e in particolare del machine learning, presto i brand potranno disporre di milioni di personalizzazioni per ogni singolo video pubblicitario», spiega Emi Gal, Ceo di Teads Studio, divisione specializzata in video advertising interattivo dell’omonima multinazionale francese. «L’Ia si appresta a rivoluzionare del tutto il modo in cui le aziende creano, applicano e misurano le loro strategie di marketing, riducendo in maniera drastica anche i tempi di reazione ed esecuzione», gli fa eco Hugo Pinto, Innovation officer Coc di Ibm. Entrambi erano a Roma per partecipare al Festival of Global Media 2017, la conferenza internazionale dedicata al mondo dei media.
Originario di Bucarest, laureato in ingegneria informatica, Gal è uno startupper che ce l’ha fatta: trasferitosi a Londra a soli 22 anni, prima ha fondato Brainient, azienda innovativa la cui tecnologia rende interattivi i video pubblicitari; poi, sei mesi fa, la sua impresa è stata comprata da Teads (a sua volta acquisita dal colosso olandese delle telecomunicazioni Altice per 285 milioni di euro), che lo ha messo a capo dello sviluppo dei nuovi formati interattivi.
«Il video advertising che vediamo distribuire oggi online è di qualità sempre più alta e, soprattutto molto più “misurabile” che non in passato», sostiene. Il problema è che i format e soprattutto i criteri di distribuzione dei messaggi pubblicitari sono tutto sommato gli stessi da decenni: quelli dettati da caratteristiche e limiti della televisione tradizionale.
Certo, è giusto ricordare che già da un po’ «gli algoritmi e le loro “decisioni” sono fondamentali in settori specifici, come ad esempio il programmatic advertising, dove la compravendita degli spazi pubblicitari online avviene in maniera automatizzata». Ma non è che la punta dell’iceberg di una rivoluzione appena iniziata e che cambierà l’intero settore. Secondo Gal, infatti, «il futuro dell’online video advertising passa per “l’interattività 2.0” e la “conversazione”», rese possibili da uno sfruttamento intensivo dell’Ia e dei big data, e forti di un sistema di distribuzione automatizzato dei video, che ottimizza i contenuti per lo schermo di ogni device mobile.
Facciamo un esempio: oggi per veicolare un messaggio pubblicitario si crea un singolo video, spesso obbedendo a canoni tipicamente televisivi, e ci si preoccupa di distribuirlo nel miglior modo possibile. Nel prossimo futuro anticipato da Emi Gal, chi dovrà produrre un video lo realizzerà «in 5mila pezzi diversi, come fosse un puzzle, che poi sarà un’intelligenza artificiale ad assemblare in tempo reale dopo aver analizzato enormi quantità di dati, creando tanti messaggi diversi e personalizzati quanti sono coloro che vedono il video». Non solo, ma il video sarà anche in grado di “parlare” con l’utente «attraverso chatbot sempre più simili agli umani e capaci di fornire informazioni utili».
In parte ciò avviene già ora: Teads ha già una piattaforma software che adatta automaticamente i video per i device mobili e, proprio in occasione del Festival of Media, ha lanciato il primo chatbot al mondo integrato in un video advertising. «Per il resto, è solo questione di tempo», aggiunge Emi Gal.
Neanche troppo, se si prendono in considerazione le funzionalità di “Lucy”, il tool presentato da Ibm al Festival of Global Media in anteprima europea e basato sull’intelligenza artificiale chiamata Watson. Quella, per intenderci, che ha già fatto parlare di sé per essere capace di apprendere analizzando i big data e, per esempio, formulare diagnosi mediche straordinariamente precise.
Come ha spiegato Hugo Pinto, Lucy nasce come strumento di supporto al venditore in ogni aspetto del suo lavoro, è in grado di svolgere in pochi minuti i compiti che un team di marketing svolgerebbe in mesi e di supportarlo nelle scelte relative a ogni aspetto del vendita, dallo sviluppo del prodotto all’individuazione dei segmenti di vendita, dal media planning allo sviluppo delle strategie di marketing.
Come detto, Lucy trae la sua intelligenza dalla piattaforma Watson, mentre prende le informazioni di cui ha bisogno da diversi database online e dai principali social come Facebook e Twitter. E il bello è che può essere utilizzata semplicemente parlandole, perché è in grado di comprendere il linguaggio naturale e di rispondere in tempo reale alle domande dei professionisti del marketing.
Almeno finché non li sostituirà del tutto.

Dal moralismo scalfariano al Travaglio grillino

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C’è un filo rosso che lega un quarto di secolo di storia patria ed esso è costituito dal linguaggio politico progressivamente degenerato, che ha inevitabilmente trascinato verso il basso anche la cultura e la qualità di un ceto politico aggredito ed intimorito da una Magistratura assuntasi surretiziamente la funzione di moralizzatrice del sistema logorato dal consociativismo ed incapace di rinnovarsi sul piano istituzionale e programmatico.
Stiamo vivendo una stagione cupa, con i rantoli del giustizialismo ed i ragli del grillismo, incubata – anche – da un giornalismo che ha praticato e caldegggiato la tecnica dello sputtanamento sistematico della classe dirigente, della contraposizione manichea, della colpevolizzazione degli avversari a prescindere, della sostituzione del confronto progettuale con l’approccio pregiudiziale.
Ora è tempo di una riflessione storico-culturale e di bilanci, non per uno scontro finale tra fazioni, bensì per rileggere criticamente la deriva populista del recente passato e far emergere le energie ed i protagonisti di una rigenerazione etico-civile con cui far rinascere il Paese nel segno dei valori liberaldemocratici, del rilancio della democrazia rappresentativa, della elaborazione di programmi condivisi per affrontare le priorità delle tutele sociali, dell’’europeismo e dell’innovazione per competere nell’economia globale…

SCEGLIERE TRA LE ROSE DEI MORALISTI E LE SPINE DELLA MORALITA’
Guido Vitiello – il Foglio – 20 maggio
Anche l’album di famiglia di Repubblica è pieno delle foto dei grillini.
Muoia Sansone con tutti i filibustieri, diceva Nino Frassica. E in effetti, chi ha spalancato i mari alle flottiglie corsare, soffiando nelle loro vele fino a che hanno abbordato i vascelli del Parlamento, chi ha offerto il suo aiuto mercenario alle più spericolate incursioni di pirateria giudiziaria al punto da ritrovarsi con lo Stato di diritto impiccato sul pennone della nave, dovrebbe quanto meno riconoscere la parte avuta nell’impresa. Niente da fare, invece: fanno di tutto per cavarti di bocca la vecchia battuta di Guerrazzi su Giuseppe Giusti, che “con braccia di Sansone scosse il luttuoso edifizio della odierna società, e poi ebbe paura dei calcinacci che cascavano”. A tanti vorrei dedicarla. A Michele Santoro, che si è spaventato dei calcinacci sentendo arrivare sul palazzo lo scossone del referendum costituzionale, e che pure ne aveva strattonato le colonne portanti ogni settimana per un quarto di secolo; a Luciano Violante, che ha voltato le spalle a certi suoi amici filibustieri del diritto senza raccontar nulla delle piratesche imprese; a Ezio Mauro, il cui giornale ha creato in vitro l’homunculus Travaglio fino a farne un gigante, salvo scoprire dalla sera alla mattina che il suo stile ormai egemonico veniva dritto dal “Borghese degli anni più torvi”. E a cento altri ancora, tra cui naturalmente il fondatore Eugenio Scalfari. Anzi, per lui farei qualcosa di meglio. Mi metterei una parrucca bianca da Rossana Rossanda, gli offrirei un tè con pasticcini e lo inviterei sul divano a sfogliare l’album di famiglia dello sfascismo grillino – da quella copertina dell’Espresso delle prime settimane di Mani pulite, con un Beppe Grillo urlante e il titolo “Non ci resta chel’insulto”, al video di Gianroberto Casaleggio che invitava la piazza a scandire “Berlin-guer, Ber-lin-guer!”in nome della questione morale. Insomma, tra le ostetriche, le nutrici e i precettori del mostriciattolo grillino manca ancora un Epimeteo, il fratello pasticcione di Prometeo che si pentiva, sia pure tardi e inutilmente, dei suoi sconquassi. Ma chi tenta di estorcere ammissioni di colpa ottiene di solito l’effetto contrario, e il meglio che può aspettarsi è l’Amaca di Michele Serra dell’altro ieri dove si diceva che la sinistra moralista riconoscerà la sua pagliuzza quando la destra immoralista vedrà la propria trave. Eppure, ripicche puerili a parte, una certa riluttanza alle assunzioni di responsabilità è nella natura di quel “moralismo” (parola forse impropria) di cui Repubblica è stata la scuola. Che non è, come si pensa, la pretesa di sottomettere la politica alla morale; è, al contrario, il completo, quotidiano asservimento dell’etica al tatticismo politico – e in questo si riflette nella “destra immoralista” come in una goccia d’acqua. E’ un libertinismo tetro, in cui non scorre la linfa della vita morale autentica, ossia tragica. Grillo, Travaglio o Davigo ne sono la caricatura espressionista, ma basta percorrere a ritroso l’album di famiglia di Repubblica per ritrovare i loro lineamenti in antenati meno sgraziati. E mentre i calcinacci ci sommergono e Sansone fa il finto tonto, ripenso a una lettera aperta che Marco Pannella, nel 1979, scrisse a uno dei venerati maestri di Repubblica, futuro autore di un “Elogio del moralismo”e candidato alle Quirinarie dai grillini, che scandiranno nelle piazze il suo cognome trisillabo proprio come “o-ne-stà” e “Ber-linguer”. Diceva, il caro grande Marco, che si tratta di scegliere “fra le rose dei moralisti e le spine della moralità”.