GIORNALISMO CANAGLIESCO

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Nella  cronaca politica dei vecchi media (carta stampata e Tv)  il già  mediocre giornalismo italiano offre  il peggio di sé: se ti fermi ad ascoltare e/o leggere le domande che vengono rivolte ai protagonisti  scelti più per la loro predisposizione a trovarsi di fronte ai microfoni e cercare inviti ai talk show  piuttosto che per la consistenza del loro pensiero,  e  si è scevri da partigianeria – animati da un seppur modesto civismo,  non si può non notarne la carica di insinuazioni  correlate dal costante tentativo di innescare polemiche artificiose e velenose tra appartenenti a diversi schieramenti quasi sempre rappresentati come irrimediabilmente destinati ad azzannarsi per l’osso della “visibilità”. Si tratta del metodo canagliesco/travagliesco che nell’ultimo ventennio ha aggiornato l’antica maledetta contesa tra guelfi e ghibellini, costruendo ed alimentando il sanguinoso conflitto tra partigiani pro o contro Berlusconi. Ora però l’invecchiato ed azzoppato leader  di Forza Italia non “regge” più ai canoni dello spettacolo cruento con cui si sono esercitati ed arricchiti  i professionisti del discredito pubblico ed i sobillatori di pregiudizi. Sta arrivando quindi  il momento di cambiare il setting e trovare una nuova coppia litigiosa su cui innescare una  stagione di acrimoniosi scontri  e velenose polemiche da “cortile Italia”: su chi meglio di Grillo versus Renzi  si può puntare per consentire ai pennivendoli di impaginare battute rancorose trasformate in “scontro politico”, di virgolettare in modo compiaciuto le affermazioni che possono reiterare articoli intrisi di disprezzo nei confronti degli avversari? Ci dobbiamo aspettare – anche per l’imminente scadenza elettorale – una stagione di interviste e pezzi  sanguinolenti, con i quali molti Direttori di giornale cercano disperatamente di frenare il crollo delle copie vendute (due milioni  solo negli ultimi anni)! Eppure la ricchezza,complessità e drammaticità della trasformazione in corso meriterebbero e consentirebbero un sussulto  di orgoglio professionale per un mestiere nobile che pur dovendo esercitarsi nella tinozza dei risentimenti e conflitti esasperati (vedi Rapporto CENSIS 2013) e  della competizione politica  interpretata con aggressività,  mettesse al centro  la profondità dei disagi e delle ragioni di tutti, focalizzandone però la possibile convergenza verso scelte che privilegino gli interessi  generali di un Paese con fondamenta sociali ed istituzionali ancora troppo fragili per sopportare un giornalismo superficiale e fazioso.  Si salvano, ai nostri occhi, alcuni opinionisti che cercano di osservare e valutare le convulse vicende del quadro politico sottraendosi  alla diffusa tentazione della partecipazione settaria e questo loro atteggiamento è reso possibile da un background di competenze specifiche: si tratti di economisti, politologi, storici, ricercatori, essi possono attingere al  bagaglio di una preparazione specifica che li mette in condizione di  interpretare  i fatti e giudicare i  protagonisti della scena pubblica con il distacco e l’imparzialità favoriti dalla conoscenza. E’ la loro presenza  nelle trasmissioni e/o nelle pagine dei giornali   che  rappresenta un fattore di equilibrio e moderazione, indispensabili  nell’attuale temperie in cui alla formazione dell’agenda politica  sono chiamati tutti i soggetti che hanno la responsabilità di occupare uno spazio pubblico: una responsabilità che compete sempre più anche a noi semplici lettori che non sopportano la puzza di carogna che trasuda dalle pagine dei giornali e dai talk show!

 

TRENT’ANNI FA SCRIVEVO QUESTE COSE SULLA FIGURA DI BERLINGUER

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“Quando c’era Berlinguer” è il film-documentario di Walter Veltroni  che – per noi che abbiamo vissuto intensamente  la vicenda politico-sindacale  degli anni ’70 / ’80 – ci consente un sempre utile ripasso di memoria; il lavoro culturale di Veltroni non mi emoziona particolarmente, ma il ricordo del leader comunista mi ha fatto ritornare alla mente cosa ebbi modo di scrivere alla sua morte:

 

“Non ci uniamo al coro di santificatori e non ci sentiamo impegnati ad edulcorare il profilo politico di Enrico Berlinguer. Quella figura minuta, quel suo modo tenace di intendere il mestiere del politico ed in particolare il rapporto partito-sindacato hanno tracciato nel paese idee e valori forti, ma anche solchi profondi e polemiche perniciose nella sinistra sociale e partitica. Ragion per cui nel momento dell’emozione e dei sentimenti che accompagnano una morte prematura e “sul campo”, è utile evitare lo sconfinamento nella retorica, nei giudizi acritici. Ciononostante dobbiamo dire che il nostro cuore è stato partecipe del doloro e la pietà ci ha penetrato in profondità. Oltre gli echi, infatti, dei contrasti che ci hanno visti critici nei confronti del Segretario del Partito Comunista Italiano, ci sovviene e ci pervade l’indiscutibile dimensione etica della persona Berlinguer. E’ stata la costante ispirazione morale e ideale di quest’uomo spigoloso che, in questi anni di peregrinare del movimento operaio alla ricerca di un filo conduttore unitario, ci ha reso meno aspre divisioni e discordie con quei comunisti interpreti di basso profilo della linea politica berlingueriana, che scambiavano fermezza con dogmatismo, fedeltà al partito con settarismo e negazione del pluralismo. Un aspetto della tragedia padovana ci è apparso singolare: anche Enrico Berlinguer come Aldo Moro – assieme al segretario comunista padre del compromesso storico – è stato strappato dalla scena politica italiana prematuramente, quasi in modo sacrificale. Così come abbiamo assistito al ripetersi della commozione popolare di fronte alla morte di un uomo politico: è confermato che in un ampio e profondo tessuto sociale del paese il rigore morale e l’onestà personali sono valori in grado di abbattere vetusti steccati ideologici e quella litigiosità politica che nell’ultima fase ha sostituito il confronto democratico. Ci auguriamo quindi che la mobilitazione unitaria delle coscienze sviluppatasi di fronte alla morte del Segretario comunista consenta di superare la fredda stagione di divisone all’interno del movimento operaio; non solo un auspicio esprimiamo, ma anche l’impegno a trarre dalla testimonianza di vita di Enrico Berlinguer, noi che non ne abbiamo mai condiviso la linea politica, stimoli ed indicazioni per rafforzare il processo di emancipazione dei lavoratori e dei più deboli.

 

UN NUOVO MODELLO DI PARTECIPAZIONE: LA SFIDA DELLA CITTADINANZA EUROPEA

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Un nuovo modello di partecipazione: la sfida della cittadinanza europea

Veneto europeo Riflettere e discutere di partecipazione oggi significa fare i conti con lo spread della vera “moneta di scambio” oggi in crisi: quel capitale sociale circolante costituito dalla fiducia nell’altro e nella relazione sociale finalizzata alla costruzione del futuro.  La metafora della “società sciapa” usata nel 47° Rapporto CENSIS sulla situazione sociale del Paese indica in modo inequivocabile l’esigenza di ritrovare  il «sale alchemico», ovvero quel  quel fervore che ha consentito di far leva sui  tanti mondi vitali che hanno operato come motori dello sviluppo degli ultimi decenni.  Ecco perché  risulta utile la definizione che meglio esprime il concetto di partecipazione: “processo di assunzione di decisioni inerenti la vita di un individuo e quella della comunità nella quale egli vive” (Unicef,1992).  Partecipare è quindi  luogo della non-neutralità, è consapevolezza che il nostro essere-nel mondo è chiamato ad orientarsi eticamente secondo criteri di giustizia ed equità,  che non possiamo assistere passivamente  alla grave congiuntura etica e culturale che si ripercuote in  una crescente privatizzazione della dimensione pubblica ed alla contestuale rinuncia a concorrere alla “ri-costituzione sociale della persona”.  E’ persino superfluo ricordare che gli indicatori di  (s)fiducia nei partiti e nelle istituzioni (l’Unione Europea compresa naturalmente) sollecitano anche un ripensamento del significato e delle procedure della partecipazione democratica: l’impegno prioritario di ogni leader e/o forza politica è diventato la restituzione ai cittadini il piacere di contare nei processi decisionali. Tale sfida ha assunto un ruolo centrale nel contesto europeo, ponendo l’esigenza  di ripensare le forme della partecipazione politica e il rapporto con i modelli di democrazia, all’interno di un più ampio dibattito sulla crisi della democrazia rappresentativa e della partecipazione elettorale che investe le democrazie contemporanee. Nel caso dell’Unione Europea la democrazia rappresentativa è caratterizzata da una debolezza di fondo, insita nella complessa architettura istituzionale che regola l’equilibrio di poteri tra Commissione-Consiglio-Parlamento e che attribuisce a quest’ultimo, unica istituzione ad essere legittimata dall’elezione popolare, un ruolo subalterno rispetto alle altre. A completare il quadro sullo stato di salute della democrazia rappresentativa in Europa, si aggiungono gli elevati livelli di astensionismo che caratterizzano le elezioni europee, riconfermati anche con le elezioni del 2009 e lo scarso contributo fornito dal sistema massmediale al processo di integrazione europea sia sul piano simbolico che informativo. Su questo gap comunicativo si è inserito il cuneo della vulgata populista antieuro, che costituisce un avversario che va contrastato con l’adozione di un’Agenda programmatica ed un linguaggio in grado di riattivare, sia a livello associativo (giovanile, culturale, professionale) che a livello comunale-territoriale, processi partecipativi con al centro i temi e le opportunità della cittadinanza europea: ricerca & innovazione per lo sviluppo sostenibile, connettività e digitalizzazione della pubblica amministrazione, efficientamento energetico e rigenerazione urbana, smart city & smart community, social innovation ovvero nuove strategie per il welfare locale, nuove infrastrutture e reti per la mobilità di persone e merci. Le elezioni europee, da questo punto di vista, diventano un laboratorio di partecipazione per la costruzione di nuovi modelli di governance e di rinnovamento del rapporto tra cittadini ed istituzioni, che siano maggiormente rispondenti alle mutate esigenze delle democrazie contemporanee.

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

EMPLEKO – OPEN INNOVATION AS A SERVICE

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“Abbiamo migliorato i prodotti, cambiato i canali distributivi. Dobbiamo certamente migliorare sulla strutura dell’innovazione che è ancora troppo spontanea e non legata a centri di ricerca o alle università” (Alessandro Vardanega –  Pres. Confindustria  TV – Il Sole 24 ore 27.2. 2014). In questa dichiarazione, lucida ed onesta,  è fotografata quella parte dei problemi solitamente messi in ombra nelle analisi e rivendicazioni  delle associazioni imprenditoriali,  focalizzate – legittimamente – sulla ultradecennale querelle  per fisco, infrastrutture e credito. Per diverse ragioni, che abbiamo sottolineato nei precedenti interventi, i processi di innovazione nel tessuto delle PMI  hanno avuto un andamento random; ben oltre le difficoltà strategiche rappresentate dal “dilemma dell’innovatore”, essi sono diventati  progressivamente un esercizio di equilibrismo manageriale. Non ci deve sorprendere quindi che nel Rapporto sulla competitività dei settori produttivi 2014 dell’ISTAT venga evidenziato che per contrastare la recessione le aziende manifatturiere hanno principalmente fatto ricorso ad orientamenti strategici “interni” di difesa della propria competitività: la riduzione dei costi di produzione, il miglioramento qualitativo dei prodotti,l’ampliamento della gamma dei prodotti offerti e il contenimento dei prezzi  e dei margini di profitto; mentre, tra le strategie “esterne” si è rilevato  prevalentemente un rafforzamento elle strategie di commercializzazione in misura pressoché identica in Italia ed all’estero. D’altronde, come è stato osservato già qualche tempo fa (A. Granelli, Innovazione. Andare oltre la tecnologia – L’IMPRESA), “Innovare oggi richiede una lettura continua dei segnali del  mercato e la capacità di mettere insieme – in maniera creativa , profittevole ed ecologicamente sostenibile – ingredienti sempre più diversificati (materiali, tecnologie, interface, estetica, servizi, sensazioni, ricordi…), costruendo esperienze “memorabili” ancorate ad uno specifico luogo – vero garante dell’unicità dell’esperienza”. L’aspetto paradossale della situazione, meno indagato e fatto emergere finora, è che il fattore conoscenza è enormemente cresciuto sia in termini di diffusione  – attraverso le tecnologie abilitanti e le expertise  – che di profondità – attraverso le ricerche di laboratorio e/o nei testi delle pubblicazioni scientifiche. L’indicazione che viene dal Progetto EMPLEKO è che questa risorsa strategica, che identifichiamo come “innovazione allo stato potenziale”, deve essere affidata ad esplicite e strutturate dinamiche di matching,  che la Rete rende praticabili e profittevoli creando  un mercato più trasparente ed efficiente. Usando un’espressione che potrà risultare sbrigativa, è tempo di passare “from the lab to the market”. L’innovazione quindi deve entrare in un’agenda pubblica nella quale vengono superati i diaframmi  culturali ed organizzativi  tra ricercatori, specialisti, aziende, istituzioni pubbliche e gli stessi consumatori (che in fin dei conti  sono i veri detentori del diritto ad una maggiore trasparenza). Quest’ultima annotazione è anche alla base dell’esigenza avvertita di un  linguaggio, per descrivere e orientare il carattere di “bene pubblico” dell’innovazione, che dismetta l’abito della specializzazione – sia essa economica o scientifica – e diventi più popolare nel senso di accessibile, comprensibile ed aperto alle  contaminazioni multidisciplinari, che costituiscono leve decisive per la creatività e la scoperta, sintonizzato con il messaggio della National  Innovation Initiative realizzata negli USA. E’ su  tali convinzioni ed orientamenti strategici che si basa il modello operativo di EMPLEKO, una Piattaforma collaborativa che persegue quella che  Chris Anderson ha definito “Crowd  Accelerated Innovation” e che rappresenta per Ricercatori, Professionisti ed Imprese l’opportunità di immettere nel motore della nostra economia una formidabile energia.

 

EMPLEKO – ECOSISTEMA DELLA CONOSCENZA (5)

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Tirando alcune prime conclusioni di tipo operativo dalle analisi e considerazioni sintetiche finora illustrate, constatiamo che: a)  la maggior parte delle  imprese italiane sollecitate a trasformare le conoscenze tecnico-scientifiche in tecnologie valide per affrontare il nuovo contesto competitivo,  sono per lo più micro, piccole e medie imprese, poche quelle di grandi dimensioni; b) la maggior parte di esse opera in settori nei quali la tecnologia, per lo meno a livello di prodotto, ha finora costituito una componente non centrale della loro qualificazione e competitività, dipendenti prevalentemente dall’efficienza e dalla innovatività dei processi e dei sistemi di produzione e da fattori non tecnologici; c) ma l’aspetto sicuramente più rilevante è che  molte delle micro-piccole imprese, soprattutto nei settori del Made in Italy, non sono oggi attrezzate, sia sul piano strategico che per quanto attiene la struttura organizzativa interna, per “assorbire” le conoscenze tecnico-scientifiche avanzate, prodotte sia dalla ricerca pubblica che dai centri ed agenzie specializzate privati, allo scopo di trasformarle  in tecnologie applicative portatrici di innovazione e fattori di competitività. La sfida prioritaria odierna, per assicurare la competitività di medio-lungo termine del nostro sistema imprenditoriale nel contesto della globalizzazione richiede quindi lo sviluppo di innovazioni, sia di prodotto sia di processo produttivo e di modello di business, che siano rese possibili e praticabili attraverso la  collaborazione tra i soggetti portatori di conoscenza ed expertise e le imprese, per le quali non è più possibile innovare in modo incrementale, capitalizzando sulla interazione con i clienti, ma debbono decidere di aumentare drasticamente la qualità del personale e attingere alle fonti esterne della ricerca. La piattaforma di EMPLEKO promuove il matching per rendere possibile l’iniezione nelle imprese, a cominciare  dai distretti e dalle filiere produttive, dosi massicce di innovazione, aiutandole a ristrutturare i processi produttivi e logistici e, in alcuni casi, a riprogettare radicalmente i prodotti. Ciò attraverso funzionalità e servizi specializzati attivi sul territorio in grado di dialogare con gli imprenditori, di interpretarne i bisogni e di metterli in relazione con i produttori di conoscenze codificate, siano esse altre imprese, fornitori, consulenti o università. Sia nella sua configurazione che con le azioni di sostegno e promozione, EMPLEKO costituisce un ambiente innovativo che incoraggia i suoi «abitanti» ad esplorare «l’adiacente possibile», rendendo disponibile un campionario più  ampio e versatile di parti di ricambio – siano esse fisiche-meccaniche o concettuali – e promuovendo modi nuovi di ricombinarle. Essa si propone anche come un’infrastruttura digitale  per promuovere il rinnovamento del made in Italy: 1) attraverso la combinazione creativa tra valore d’uso e valore simbolico per ri-creare il    successo dei prodotti italiani in una gamma vasta, oltre le tradizionali nicchie; 2) con la valorizzazione delle unicità storiche, culturali e territoriali resa praticabile  dall’applicazione di  conoscenza avanzate di management. EMPLEKO significa una scelta di investimento redditizio perché rende praticabile in modo più efficiente la esternalizzazione delle procedure ed i costi della ricerca «catturando» attraverso la rete  l’intelligenza e la conoscenza diffuse e consentendo di rendere percorribili  alle PMI i due diversi modelli di innovazione indispensabili per far uscire il Paese dalla crisi: – combinando tra loro i fattori di forza dell’industria tradizionale con la nuova economia del terziario avanzato; – integrando a valle le grandi capacità scientifiche espresse dai poli di eccellenza (Università, Parchi       scientifici, Agenzie e Centri di Ricerca) per rigenerare l’iniziativa imprenditoriale e le attività  industriali.

IL FIGLIO SVEGLIO (IN UNA FAMIGLIA IN CRISI)

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Sulla fenomenologia Renzi  si stanno esercitando fior  di  sociologi e politologi, ma,  in un tempo in cui è saggio ascoltare il monito di Papa Francesco (“ In verità, sono convinto che se facciamo il progetto di evitare le chiacchiere, diventiamo santi”), ritengo preferibile  focalizzarsi su una metafora semplice semplice. Alle famiglie in crisi (l’Italia lo è) capita che ci sia un figlio giovane ed esuberante che percepisca il rischio di un declino inarrestabile e dia una sveglia. In questo caso l’atteggiamento più ragionevole credo sia assecondarne  la genuina energia rinnovatrice, contribuendo ad irrobustirla ed orientandola a smuovere le inerzie del “pachiderma” di cui parla oggi Panebianco sul Corriere.

Penso  inoltre che siano improduttivi: a) la corsa menzognera all’adozione (leggi Berlusconi); b) le opposte manifestazioni della delega in bianco, leggi Ferrara, del fratello maggiore che dichiara il fallimento della propria generazione (Giuliano, parla per te!) o di quello solo più anziano, leggi Letta, che assume il broncio perché scavalcato (Enrico continua a giocare le tue – buone – carte!); c) il boicottaggio di chi, leggi Grillo,  ritiene che salvare la famiglia equivalga a bruciare la casa paterna! Naturalmente la velocità dei processi e le discontinuità generazionali provocano sussulti e resistenze, anche culturali (penso al  “nonno” Scalfari che non si capacita di un giovane leader non generato dal laboratorio di Repubblica….). Tutto bene, tutto chiaro, dunque? Certamente no; se da un lato all’aria fresca fiorentina è giusto aprire le finestre, partecipando – ognuno nell’esercizio delle sue funzioni, competenze, responsabilità – ad un rinnovato impegno per il bene comune del Paese, contemporaneamente vanno  rafforzati  l’approccio critico per focalizzare meglio i programmi concreti su cui concentrare l’azione. Non ci si deve mai dimenticare che il vizio nazionale da debellare resta ancora l’ossessione per il who accompagnata dalla disattenzione per il what e l’how. Nutro una sincera simpatia per il nostro nuovo Presidente del Consiglio (alla sua età mi è capitato di essere contrastato perché giudicato un “giovane turco”…), ma sono abituato ad osservare gli indicatori fondamentali del cambiamento socio-culturale ed economico con cui valutare l’efficacia di un leader!

 

EMPLEKO – ECOSITEMA DELLA CONOSCENZA (4)

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…..ma il “salto di qualità” è inscindibilmente correlato alla possibilità, per il sistema delle Aziende  – soprattutto PMI – di comunicare, interagire, collaborare con i Centri e le Agenzie impegnate nella Ricerca: ed anche in questo ambito la situazione in Italia è per certi aspetti drammatica; lo evidenzia il fatto che più di metà dei ricercatori italiani che hanno vinto gli Starting Grants ERC (European Research Council) abbiano deciso di portarli all’estero. Se ne può dedurre  che  l’attrattività delle Istituzioni di ricerca del nostro Paese è davvero modesta. A fronte di  questo segnale preoccupante aumentano gli interrogativi sull’effettiva praticabilità di programmi di ricerca con standard  di riconoscibile validità ed efficacia a livello internazionale: le risorse pubbliche sono ritenute insufficienti,  perché i tagli alla spesa pubblica  indotti dalla spending  rewiew  negli ultimi  anni hanno colpito la ricerca accademica senza l’adozione di criteri selettivi. In tutta questa vicenda l’aspetto più inquietante  è che i nodi cruciali non vengono affrontati e nemmeno  inseriti  nell’agenda pubblica, almeno alla pari  con altre questioni come il costo dell’energia e la dotazione infrastrutturale (in particolare tecnologica) che costituiscono il vero handicap che grava sul grado di competitività delle nostre Imprese. La Ricerca sembra assurdamente costituire  un bene di lusso! La necessità di una discussione pubblica è indispensabile perché alcune domande riguardano gli utilizzatori della Ricerca (in primis le Aziende):  1)  innanzitutto l’allocazione delle risorse: è  giusto tenere in vita dipartimenti e centri di ricerca in cui più del 30% delle persone non fanno ricerca al di sopra di standard minimi? 2) come va utilizzati gli indicatori  di  valutazione della ricerca accademica per rafforzare gli istituti che hanno maggiori potenzialità e risulti più concreti; 3) è giusto concentrare gli investimenti su pochissime istituzioni di ricerca in grado di raggiungere una massa critica di scienziati di livello? 4)  come vanno strutturare le reti collaborative tra  istituzioni affinchè  gli investimenti  ed i risultati  siano conndivisi; 5) qual è la strategia più efficace per consentire ai centri di ricerca italiani di crescere nella competizione mondiale, anche attraverso l’attrazione dei talenti. Contestualmente a questi  interrogativi si pone la questione del  modello di raccordo necessario tra ricerca, politica industriale e il tessuto e la tipologia delle aziende che abbiamo esaminato nel contributo (3)  e che verosimilmente costituisce la realtà del prossimo  futuro? Quale ricerca è maggiormente congeniale al nostro Paese? Dovremmo puntare quasi tutto sull’innovazione in aree collaudate – moda, turismo e alimentari – e indirizzare la “vera” ricerca in pochissimi settori, ben selezionati, giocando solo lì la nostra competizione col mondo globale della scienza?  Di quale governance della ricerca abbiamo bisogno? Ogni Ministero per sé e “regole sparse” o serve una visione d’insieme e un’azione coerente nel tempo?  Sono temi e dilemmi che sonno stati affrontati con una molteplicità di approcci, dati e contributi scientifici in un Convegno alla Bocconi su “La ricerca in Italia. Cosa distruggere, come ricostruire” ( Milano, 9 dicembre 2013). Certamente le risposte vanno cercate mettendo mano alla dotazione finanziaria, alla concentrazione ed all’efficientamento dell’uso delle risorse, all’applicazione di criteri rigorosamente meritocratici nella selezione dei ricercatori. Ma soprattutto deve entrare in campo un nuovo misuratore dell’intensità e qualità della comunicazione tra offerta (Ricerca) e domanda (Imprese). La Piattaforma collaborativa di Empleko affronta tale sfida e si propone  come strumento decisivo per accelerare e concretizzare tale dialogo, introducendo il linguaggio, la metodologia e la pratica dell’open innovation, con modalità inedite nel nostro Paese.

 

EMPLEKO – ECOSISTEMA DELLA CONOSCENZA (3)

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Misurarsi  con le criticità del sistema industriale italiano significa innanzitutto  conoscerne la morfologia produttiva ed organizzativa; nel  momento in cui il dibattito pubblico è focalizzato nella difficile ricerca di policies adeguate a favorire l’uscita del Paese dalla perdurante recessione, abbiamo l’opportunità di correlarle ad una mappa conoscitiva aggiornata e puntuale. Il 9° Censimento generale ISTAT  dell’Industria e dei Servizi, presentato a Milano il 28.11.2013, mette a disposizione informazioni  che  fanno piena luce sulla realtà delle imprese italiane, con riferimento sia ad aspetti quantitativi  sia a fenomeni riguardanti l’organizzazione, le strategie, i mercati, l’innovazione, l’internazionalizzazione. Una prima chiave di lettura  dello stato dell’arte  è data dall’indagine sull’accesso e  l’uso delle ICTs , che mostra un quadro relativamente deludente (confermando le rilevazioni, più mirate e focalizzate sul piano territoriale,  realizzate dall’Osservatorio della Confindustria Servizi Innovativi del Veneto. Una seconda chiave interpretativa, è quella relativa alla spesa media in ricerca e sviluppo per impresa industriale: 35.000 euro in Finlandia, 32.000 nel Regno Unito, 25.000 in Francia e (solo) 4.000 in Italia sono cifre per così dire autoesplicative! E’ però indispensabile associarle (per comprenderne la miseria) ai  dati del censimento  che fotografano, in primo luogo, con precisione,  i mutamenti strutturali dell’apparato produttivo tra il 2001 e il 2011; il quadro che emerge mostra che il sistema delle imprese italiane ha mantenuto una connotazione fortemente incentrata sulla piccola dimensione aziendale: nel 2011 sono risultate  attive circa 4,4 milioni di imprese, con 16,4 milioni di addetti, registrando – rispetto al 2001 –  un aumento di 340mila imprese (+8,4%) e di circa 700mila addetti (+4,5%). Ma la conferma  del  “nanismo”  non deve indurre a facili e scontate conclusioni: infatti, dalla superficiale uniformità statistica, il Censimento ha consentito di estrarre – attraverso l’analisi multivariata – una sintesi con l’ identificazione di  cinque raggruppamenti di Imprese: a) il gruppo quantitativamente più rilevante (le imprese “conservatrici”) include quasi il 64% delle imprese (670mila unità, con un’occupazione di quasi 6 milioni di addetti); b) Il secondo gruppo (le imprese “dinamiche tascabili”) comprende poco meno del 20% delle imprese (circa205mila unità, con 2,6 milioni di addetti), con un profilo settoriale simile a quello medio e una dimensione di poco inferiore ai 13 addetti; c) Il terzo (le imprese “aperte”), conta 75mila unità, assorbe 1,7 milioni di addetti e registra una dimensione media di 22,9 addetti. Questo gruppo è caratterizzato settorialmente da una presenza piuttosto elevata d’imprese industriali (il 42,7%); d) Il quarto raggruppamento (le imprese “innovative”) conta 74mila imprese, che impiegano 1,5 milioni di addetti e mostrano una dimensione media di 19,8 addetti per impresa. Esse presentano un profilo settoriale abbastanza simile a quello medio e sono connotate soprattutto dalla dominanza di comportamenti innovativi; e) Infine, il quinto (le imprese “internazionalizzate spinte”) include solo il 2,6% delle imprese (27mila unità, che impiegano 1,1 milioni di addetti), per una dimensione media di 39,5 addetti. Complessivamente, quindi, emerge un quadro di  profili d’impresa notevolmente eterogenei  che comportano la necessità di adottare strategie ben mirate: esiste infatti, da un lato,  un elevato potenziale di crescita e competitività alla portata di una molteplicità di  imprese, anche  di piccole dimensioni in molti  settori ed aree territoriali ; dall’altro  un’area di conservazione e comportamenti difensivi risulta  molto estesa, che coinvolge anche ampi segmenti di imprese di medie e grandi dimensioni. Diventa quindi decisiva l’individuazione delle strutture produttive preparate al salto di qualità ed a cui guarda  EMPLEKO.

EMPLEKO – ECOSISTEMA DELLA CONOSCENZA (2)

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Nel precedente contributo abbiamo che esistono diagnosi accurate sul deficit di innovazione del sistema industriale italiano, che focalizzano in particolare i limiti  strutturali di efficienza e produttività. Generalmente i numeri e le tabelle che li rendono evidenti non trovano molta divulgazione e visibilità. Mi sembra pertanto opportuno segnalare quelli contenuti nel Paper della Banca d’Italia (n. 121, aprile 2012) “IL GAP INNOVATIVO DEL SISTEMA PRODUTTIVO ITALIANO: RADICI E POSSIBILI RIMEDI” – di M.Bugarelli, L.Cannari, F.Lotti, S.Magri). Il ritardo dell’Italia nell’attività innovativa rispetto ai principali paesi industriali viene strettamente correlato alla frammentazione del sistema produttivo in molte piccole imprese che hanno difficoltà a sostenere i costi elevati insiti nella ricerca e sviluppo e ad assumersene i rischi. E i nodi cruciali che tale panorama presenta sono numerosi, “intrecciati”, ma, potremmo sottolineare, ben enucleati e quindi affrontabili con una strategia e strumenti adeguati. In estrema sintesi: l’insufficienza delle risorse finanziarie pubbliche per R & D è aggravata dall’incertezza e precarietà delle  misure previste per PMI (0,006 % del Pil contro il 0,11 della Germania); la flessibilità del lavoro – quando riguarda gli high skilled – deprime i processi di innovazione, così come la gestione centrata sulla “managerialità familiare” è un fattore di rallentamento delle scelte di riorganizzazione; il persistente individualismo si riflette nella scarsa propensione delle imprese alla cooperazione nell’utilizzo dei finanziamenti e partnership con università (e centri di ricerca) che, a dir il vero, nell’ultimo decennio,  si sono attrezzate con l’avvio di ben 58 UTT (Uffici per il Trasferimento Tecnologico).  Si tratta di una “risposta” importante, in molti casi generosa e competente, di cui non abbiamo però una ricognizione precisa ed aggiornata. Sappiamo che per favorire la collaborazione tra pubblico e privato, sono stati attivati una molteplicità di iniziative di programmazione e di interventi concreti,  con ricadute territoriali scoordinate: distretti tecnologici, parchi scientifici e tecnologici, incubatori, poli di innovazione. Questi strumenti sono stati utilizzati sia dal MIUR sia dalle Regioni, dalle Università e Camere di Commercio: di essi non si  un quadro sistematico di valutazione, ma ne sono state identificate le  principali criticità. Nelle esperienze di collaborazione tra ricerca pubblica e impresa si sono manifestati limiti ed inefficienze nella governance: spesso confusa, dispersa tra molti soggetti, priva di una chiara individuazione delle responsabilità (soprattutto nel caso di molti distretti tecnologici); nella presenza talvolta troppo dominante delle università, a svantaggio della concreta possibilità di assicurare un adeguato ritorno economico alle imprese; nella sottostima dei tempi e dei costi necessari per rendere operativa la collaborazione; nella scarsa stabilità delle strutture in termini di personale con elevate competenze; nella mancanza di una chiara identificazione di obiettivi intermedi cui subordinare l’erogazione dei contributi pubblici. In questo contesto di debolezza sistemica, con un tessuto di PMI in affanno ed un’azione pubblica caratterizzata da asimmetrie organizzative, la strategia operativa dell’Open Innovation diventa una strada obbligata per accelerare i processi  di aggiornamento tecnologico-organizzativo del sistema produttivo: ma è fondamentale saper riconoscere propedeuticamente i problemi culturali, di linguaggio e metodologici che ne hanno finora condizionato l’evoluzione. Il Progetto EMPLEKO intende  misurarsi con le criticità persistenti e facilitarne la soluzione.

EMPLEKO: CONTRIBUTO ALL’ECOSISTEMA DELLA CONOSCENZA

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Mission 2014: contribuire all’ecosistema  della conoscenza  

 

Viviamo un tempo in cui le parole hanno acquistato un appeal inedito, un “valore d’uso” che è diventato anche  un misuratore della serietà-credibilità di chi le profferisce.

Il loro significato è sempre più associato ai volti ed alle coerenze comportamentali; le persone sono sempre più identificate con il linguaggio che le  contraddistingue, tanto più  quando esso ha a che fare con l’esercizio di un’attività e/o di una professione che richiedono il possesso di competenze tecniche e scientifiche.

Nell’attuale temperie di crisi ed incertezza,  si è fatto più stringente l’esigenza che “le parole non siano staccate dalla pratica”, che insomma “le parole siano vissute” e  testimoniate.

Contestualmente siamo immersi in un mondo di relazioni frenetiche e di comunicazione  virale che  rendono le parole e le affermazioni più fragili: e quando escono dalle bocche ed entrano nel sistema dei media “frullatori”, colorite dalla   retorica,  accentuate dal marketing, caricate dal bisogno di autoaffermazione, l’effetto è duplice: o – come la maionese – impazziscono, o si svuotano della loro intrinseca verità, del messaggio originario di cui (erano) sono portatrici. E ciò crea la diffusione di incomprensioni, asimmetrie  dei codici espressivi, moltiplicazione delle interpretazioni su fatti e cose dapprima riconosciuti e valutati in modo  uniforme.

Non è quindi sorprendente che l’indicatore fiducia, nelle indagini demoscopiche che si susseguono incessantemente –  con riferimento a diverse questioni cruciali, dall’orientamento ai consumi al  rapporto con le istituzioni, dalla propensione agli investimenti alla crescita economica ed allo sviluppo occupazionale –  risulti  orientato al segno  negativo.

Una tale fenomenologia  è ormai  acclarata – perché abbondantemente analizzata e discussa – per quanto riguarda gli attori ed i protagonisti della  scena pubblica, siano essi parte dello screditato ceto politico o appartenenti alla inefficiente-costosa burocrazia amministrativa: in questo ambito lo scarto tra progetti-promesse-slogan e realizzazioni concrete ha letteralmente bruciato il significato e le attese che molte parole, “promettenti” e dense  di suggestione, avevano suscitato.

Meno chiari appaiono invece i rischi che stiamo correndo per l’abuso di parole nell’ambito della discussione e dell’attività divulgativa riguardanti i  temi ed i dilemmi  che la crisi  sociale, economica e finanziaria del “sistema Paese”  pone nell’agenda quotidiana dei media e della molteplicità dei soggetti (Imprese, Associazioni, Economisti e Ricercatori, Professionisti e Consulenti) impegnati a contrastarne gli effetti negativi ed a cercare credibili-praticabili  vie d’uscita.

Il  caso più eclatante e per molti versi rivelatore, su cui intendiamo soffermarci, è quello che si riferisce all’innovazione.

Senza dubbio essa  costituisce il mainstream di questa (lunga) stagione di recessione, una sorta di mantra invocato e dibattuto come scelta strategica, strumento e pratica decisivi per ridare fiato e slancio al sistema economico-produttivo del nostra Paese, visibilmente impreparato-affaticato nel reggere le sfide di una competizione globale che si gioca su fattori (finanziari, tecnologico-organizzativi, internazionalizzazione, efficienza amministrativo-istituzionale) visibilmente deficitari, con numeri e performance che non solo collocano l’Italia in degradanti posti in classifica, ma – purtroppo – ne prefigurano (in assenza di provvedimenti efficaci)  un declino inarrestabile, atteso che esso dura ormai da oltre un ventennio.

Esistono diagnosi abbastanza accurate sulle cause prossime di tale stato di crisi; numerose ricerche e convegni hanno focalizzato in modo inoppugnabile che il sistema produttivo italiano è caratterizzato da un deficit strutturale di efficienza e produttività, finora oscurato – per meglio dire mascherato – dalle straordinarie performance di un certo numero di Imprese e comparti del Made in Italy, in grado di raddrizzare, attraverso l’export, i conti della Bilancia commerciale, però insufficienti a ridare vento alle vele della crescita del PIL oltre la soglia di galleggiamento.

Da più parti (in primis Banca d’Italia) si indica quindi la necessità di superare tale gap puntando sui processi di innovazione che possono scaturire soprattutto dall’incremento delle relazioni collaborative  tra Ricerca ed Imprese.

E’ a questo punto però che l’auspicato e fondamentale circolo virtuoso non riesce a decollare, essendo ostacolato da  difficoltà ed incongruenze collegate sia con tradizionali resistenze e pigrizie di una parte del mondo accademico, sia con l’endemica incapacità delle PMI ad investire risorse significative su R & D; ma, a nostro avviso, ciò che rimane inesplorato e deve essere quindi svelato è l’imbroglio semantico che ruota attorno alla sfida – finora non affrontata nelle sue estreme conseguenze – dell’innovazione.

Come si fa a favorire l’innovazione se il nostro linguaggio, e prima ancora il nostro pensiero, non sono innovativi”? Si condensa in questa affermazione di Enrico Letta,  qualche tempo fa (quando non era Presidente del Consiglio), il nodo  cruciale da risolvere.

Bisogna mettere in conto che il nostro è un Paese gravato da un pesante deficit di cultura scientifica , reso ancor più grave, nei suoi effetti sul sistema economico-produttivo, dal ritardo e dai limiti strutturali con cui l’Italia sta affrontando anche l’ultima innovazione dell’Information  and Communication Technology, quella che ha determinato  la rivoluzione digitale (vedi in proposito le vicissitudini dell’Agenda): tutto ciò rallenta i processi di trasferimento della conoscenza, accentuando il mismatching   tra mondo della  ricerca (non solo  università) e delle professioni  “high skilled”  ed imprese (fenomeno che, come evidenziato dal recente Rapporto McKinseyEducation to Employement: Getting Europe’s Youth into Work” e la Ricerca UETrapped or flexible”, colpisce pesantemente i giovani scolarizzati)  facendo emergere in tutta la sua evidenza la questione che i sociologi hanno identificato come “prossimità cognitivo-sociale”.

Tale diagnosi è confermata dai  dati che fotografano un autentico  paradosso:

a)            mentre cala a livello mondiale la quota di mercato delle imprese esportatrici italiana, e cala la quota di brevetti delle imprese, al contrario aumenta la quota di pubblicazioni scientifiche rispetto sia al numero sia alle citazioni ricevute;

b)           i laureati italiani vincono molti ERC – European Research Council (http://erc.europa.eu/) ma non li spendono in Italia; né ci vengono i laureati dei Paesi più ricchi!

Si delinea un contesto operativo che impone prioritariamente di ridare un significato autentico all’innovazione, mettendo in campo progetti ed azioni nei quali la correlazione con  le parole adottate sia verificabile e valutabile immediatamente.

C’è bisogno di un “pensiero profondo ed umile” sorretto da una determinazione forte.

E’ l’ispirazione che deve caratterizzare la strategie e le iniziative di Open Innovation: affinchè la conoscenza e le competenze siano sostenute e promosse attraverso infrastrutture tecnologiche  e modelli organizzativi in grado di  accelerarne la circolazione:

–              superando le  barriere corporative,  le autoreferenzialità, le furbizie ed i tatticismi indotti dal pensiero pigro;

–              contaminando il tessuto delle PMI  in particolare laddove lo spirito imprenditoriale continua a dare segni di vitalità e creatività che necessitano di essere coniugate con l’intelligenza collaborativa;

–              adottando e praticando linguaggi e procedure che alimentino   la contiguità, l’empatia e la prossimità cognitivo-sociale che consentono di condividere le sfide.

Nel territorio triveneto, le esperienze e le iniziative impegnate a concretizzare tale impostazione strategica ed  operativa, si stanno moltiplicando,  attraverso una migliore focalizzazione  dei servizi al placement delle Università (come auspica Paolo  Gubitta, Corriere del Veneto, 19 gennaio 2014), con progetti collaborativi sostenuti dalle Camere di Commercio, con l’impulso al lavoro di rete dato dalle Istituzioni (Innoveneto, Trentino Sviluppo), con eventi  e sperimentazioni (Nordest Technology Transfert)….

Si tratta di una fenomenologia emergente incoraggiante perché orientata verso un’ecosistema della conoscenza che consenta di irrobustire il processo virtuoso di arricchimento e moltiplicazione di buone pratiche di innovazione.

Il  progetto EMPLEKO si propone come piattaforma  aperta, predisposta ad implementare,  integrare  e finalizzare maggiormente  al matching, mettendola  a disposizione delle Imprese per trovare soluzioni alle loro esigenze di R & S, attraverso un sistema collaborativo all’interno del quale le Imprese stesse e gli Esperti “intrecciano” i loro bisogni, le loro competenze e le loro risorse per raggiungere l’obiettivo comune di rilanciare la competitività del sistema produttivo italiano.