La classe creativa ha fallito, lo ammette anche Florida Ma in Europa si impone la città media: è più facile far leva sull’effetto rete
Guido Romeo – Il Sole 24 Ore domenica NOVA24 – 10 Settembre 2017
La classe creativa ha fallito. Non nell’avere successo e nell’arricchirsi, ma nel rilanciare le città e i territori. La sentenza arriva proprio da Richard Florida, l’economista americano che quindi anni fa, con il bestseller “La classe creativa spicca il volo” aveva consacrato la ricetta delle 3T (tecnologia, talento e tolleranza) per rilanciare le città e i territori. Peccato che proprio che nel suo ultimo “The New Urban Crisis” lo stesso Florida debba tornare sui suoi passi mostrando, dati alla mano, che gentrificazione e diseguaglianze sociali hanno colpito più duramente proprio nelle città statunitensi dove si è maggiormente investito nell’attrazione di talenti.
Il New Urban Crisis Index, un indice composito elaborato da Florida per offrire una misura sintetica della segregazione economica, della disparità delle retribuzioni e dei salari oltre che del costo delle case, mostra che proprio le città creative per eccellenza (Los Angeles, New York e San Francisco hanno valori superiori a 0,9 su una scala 0-1) sono quelle dove le disparità sono più forti, ma anche quelle più piccole come Austin e Boston, mostrano gli stessi problemi. Il dato più drammatico è che i lavoratori del settore servizi, cioè a supporto delle industrie creative, sono addirittura penalizzati dal vivere in queste città rispetto ai loro colleghi di città più tradizionali che hanno salari più bassi in valore assoluto ma un potere di aquisto e una qualità della vita più alte.
L’analisi di Florida guarda esclusivamente alle città Usa e in fondo non sorprende, visto che a livello complessivo gli Stati Uniti mostrano un indice di Gini (che misura le diseguaglianze sociali) superiore di almeno 10 punti alla maggior parte dei Paesi europei. Il dato è però importante perché l’Europa applica da tempo ricette analoghe per espandere le sue industrie creative. Purtroppo nel Vecchio continente ci sono pochi dati per misurare le diseguaglianze a livello locale, ma il Joint Research Center della Commissione europea ha da poco pubblicato la prima edizione del suo Cultural and creative cities monitor (accompagnato anche da uno strumento interrattivo: https://composite-indicators.jrc.ec.europa.eu/cultural-creative-cities-monitor/) che esamina 168 città in 30 paesi del continente (EU28 più Svizzera e Norvegia).
Il rapporto indica l’investimento nelle industrie creative come un fattore cruciale di sviluppo socio-economico dei territori e prende in esame nove parametri che spaziano dalla creazione di nuovi lavori alla governance e alla tolleranza per la diversità delle diverse città sintetizzati nell’indicatore C3. Con 63,2 punti Parigi emerge in testa tra le 21 città XXL (sopra al milione di abitanti) seguita da Monaco, Praga, Milano (38,4) e Bruxelles, mentre Londra è lontana (34,7) nonostante le sue grandi energie, probabilmente a causa delle disparità evidenziate da un indice Gini (0,44) tra i più alti del Regno Unito e a livello globale secondo Euromonitor international. Più prevedibili i casi di eccellenza nelle città medio piccole dove spiccano Zurigo (52,1), Berna (50) e Copenhagen (49,9). I centri italiani, a parte Milano, 20ima in classifica assoluta, sono molto staccati con Bologna (31,8), Venezia (31,7), Torino (24,3), Roma, (26,8 dietro a Bucarest) Genova (22,9), Cagliari (22,1) e Napoli (18,2) poco sopra alla maglia nera della bulgara Plovdiv (13).
Sul fronte delle città creative europee sembra il caso di dire che «medio è bello» perché la città culturale e creativa ideale è una sintesi che, a parte Parigi (ai vertici per partecipazione culturale e attrattività), vede dominare proprio le medio-piccole: la svedese Umea per i nuovi lavori, le olandesi Eindhoven e Utrecht per la proprietà intellettuale e l’innovazione, la belga Lovanio per capitale umano e formazione, la britannica Glasgow per l’apertura, la fiducia e la tolleranza e Copenhagen per la governance.
C’è però da chiedersi se oltre alla scala, ci sia un effetto rete nei territori dove più città creative sono vicine e possono condividere talenti, esperienze e buone pratiche. «La situazione europea è strutturalmente diversa da quella statunitense per almeno tre ragioni – osserva Irene Tinagli, economista che con Richard Florida ha pubblicato “Europe in the creative age” e “L’Italia nell’era creativa” e dal 2013 è parlamentare pd -. Il primo fattore è che abbiamo un’urbanizzazione più diffusa e la concentrazione demografica nelle grandi metropoli è meno spinta, riducendo gli effetti di segregazione per reddito; il secondo è un sistema di piani urbanistici molto più rigido che rende impossibile operazioni di ricostruzione di interi quartieri come avviene nei centri oltreoceano; il terzo, infine è un sistema di politiche sociali molto più attente e organizzate anche se con grandi differenze tra Nord e Sud Europa. Questo è molto importante perché una città non è unicamente riducibile alla sua dimensione urbanistica».
Questa particolarità delle città europee è confermata anche dal lavoro di Alessandra Michelangeli ed Eugenio Peluso, rispettivamente dell’Università Bicocca e della Cattolica di Milano: le città italiane sembrano caratterizzate da un effetto rete che tende a compensare la differenza tra le infrastrutture delle diverse province attenuando, in parte, le diseguaglianze socioeconomiche. La sfida italiana rimane però qulla sul fronte strutturale. Milano e Bologna si posizionano bene nei ranking per l’alta densità di brevetti e l’importanza degli atenei, ma le politiche sulle startup e l’innovazione come Industria 4.0 avranno impatto sul mercato del lavoro e della formazione solo tra alcuni anni.