“La nostra classe dirigente è stata sempre preda
di tensioni tra varie subculture antropologiche
che hanno dato vita a «cerchie del noi»: cattolica,
laica, socialista, a loro volta molto frammentate”
L’autore si sofferma anche sugli «intellettuali» e sulla loro tendenza a farsi iscrivere in qualche setta che non tollera l’esercizio della ragione critica
Paolo Pombeni – 29 Ottobre 2017 – Il Sole 24 Ore domenica
La storia come dovere di riflessione civile: mi pare sia questa la chiave per leggere il libro in cui Paolo Mieli ha raccolto i suoi percorsi di confronto con quanto si è prodotto negli ultimi anni sulla storia dell’Italia Unita. La caratteristica di questo volume, ciò che lo rende diverso da altre opere che si sono dedicate ad investigare le vicende del nostro Paese dall’unità ad oggi, è che si tratta non del classico saggio in cui l’autore propone una propria ricostruzione del tema in questione, ma di un assai impegnato percorso di confronto e valorizzazione di quello che la storiografia italiana ha messo in luce sui vari momenti topici della nostra vicenda nazionale.
La tecnica di scrittura di Mieli è raffinata e, come sempre accade in questi casi, il lettore non percepisce questa caratteristica perché tutto sembra svolgersi in maniera piana e scorre in modo piacevole. In realtà c’è dietro un lavoro intenso per individuare i punti chiave che meritano di costituire la trama della nostra storia e per mettere in luce come questi snodi siano stati esplorati da studiosi che hanno avuto il coraggio di prendere, come si usa dire, il toro per le corna. Mieli bada a questa sostanza e non paga tributi alle mode, perché valorizza allo stesso modo autori assai accreditati come, solo per fare degli esempi, Galli Della Loggia, Sabbatucci, Guido Formigoni, o studiosi delle generazioni più giovani come, sempre solo per fare degli esempi, Mondini e Panvini.
Mi permetto di dire che non bisogna farsi fuorviare troppo dal titolo, che è ovviamente accattivante. Alle radici del nostro dissesto, che è il fenomeno che preoccupa chi come Mieli ha una storia e un ruolo di osservatore partecipante delle tensioni che scuotono la nostra convivenza civile, non sta tanto il “caos” quanto la complessità della storia italiana, che è ciò che emerge in maniera assai nitida dal percorso di lettura coinvolta e coinvolgente che viene condotto in queste pagine.
Certo Mieli riscopre una radice ottocentesca della debolezza della nostra politica ed è un fatto interessante, perché ormai c’è una tendenza a concentrare tutte le analisi non solo sul Novecento, ma in particolare sul secondo Novecento. Qui il nostro autore ritorna a una tesi che ebbe larga circolazione nel XIX secolo, cioè la convinzione che l’Italia non riuscisse ad essere un sistema costituzionale come quelli vigenti nell’Europa moderna, perché le elezioni, cioè il volere del popolo, non determinavano il quadro politico che invece era nella disponibilità di élite piuttosto autoreferenziali. Ed è alla fine la loro autoreferenzialità che spiega la piega verso quel fenomeno che va sotto il nome di trasformismo, cioè alla fine il concentrarsi delle élite politiche in un “blocco” interessato più che altro alla salvezza del “sistema” messo in piedi, ciò che peraltro coincideva con la salvezza delle loro posizioni.
Difficile negare che si tratti di una tendenza, ma vorrei dire anche di una tentazione di lunghissimo periodo, destinata a perpetrarsi sino ai giorni nostri. Sarebbe però interessante discutere, e in questo libro di materiale per farlo ce n’è molto, se ciò dipenda all’inizio da una arretratezza del nostro panorama costituzionale rispetto a quello dei vicini o da altre cause. In verità, almeno per il periodo liberale classico, cioè fino alla Prima Guerra Mondiale, di sistemi politici fondati sulle dinamiche del consenso elettorale dei partiti c’era a pieno titolo solo quello inglese. Già quello francese della Terza Repubblica lo era in modo piuttosto peculiare, mentre grandi imperi come quello tedesco o quello asburgico avevano situazioni assai peggiori della nostra con governi che dalle elezioni non dipendevano per nulla.
Naturalmente non è questo il punto centrale, perché la problematica affascinante che emerge dalla ricostruzione di Mieli è quella di un Paese continuamente preda delle sue complessità, che mai gli permettono il semplicismo delle analisi in bianco e nero. Così il riformismo di Giolitti si sposa con la sua disinvoltura a manipolare il consenso, il fascismo è contemporaneamente repressione e coinvolgimento, la Dc è clientelismo ma anche creatività politica, il Pci è capace di ottuse idolatrie ideologiche in pubblico come di dubbi e analisi più raffinate dietro le proprie quinte.
Della ricchezza del libro (166 sono le opere richiamate ed esaminate dall’autore) non si può dare compiutamente conto in questa sede, ma si deve ricordare come da essa emerga un quadro molto mosso della vicenda del nostro Paese che ha dovuto fare i conti, mi pare, con il problema che si tira dietro sin dalle origini: la difficoltà di costruire una cultura assimilatrice della sua popolazione e in specie della sua classe dirigente, perché continuamente preda delle tensioni fra le varie subculture antropologiche che in Italia danno vita a diverse “cerchie del noi”: quella cattolica, quella laica e quella socialista sono tradizionalmente riconosciute, ma in realtà ciascuna di esse si scompone in molti elementi, mentre fianco a fianco o intrecciate con esse ci sono quelle regionali, quelle culturali in senso classico e le non poche tendenze “rivoluzionarie” che hanno preteso di unificarle forzatamente.
Forse per questo sembra a volte che la chiave della politica italiana sia nel “non governo” per citare uno studio di Piero Craveri che Mieli analizza con grande attenzione. Contro di esso si schierano personaggi diversi, anch’essi contraddittori e aspri da interpretare (basti ricordare l’attenzione alla figura di De Gasperi), che però poi faticano a navigare fra gli scogli di una società più che disponibile a farsi irregimentare. Qui ci sarebbe da aprire uno squarcio sull’attenzione che Mieli dedica agli “intellettuali” nei diversi periodi che esamina e alla tendenza che gran parte di essi mostra a farsi iscrivere più che in qualche “scuola”, in qualche setta che non tollera l’esercizio della ragione critica.
Non è difficile al termine di questa lettura convenire con Mieli che il nostro dissesto ha radici profonde. Una parte almeno della storiografia italiana ha cominciato a farci i conti e il nostro autore ha tra i tanti anche il merito di avere valorizzato questi sforzi con quella autorevolezza di formatore della pubblica opinione che gli viene dal suo stesso percorso di studioso di storia.
Paolo Mieli, Il caos italiano. Alle radici del nostro dissesto , Milano, Rizzoli, pagg. 352, € 20